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21 aprile 2010


Come specificato nel test qui riprodotto, il brano autobiografico di Carlo Fruttero pubblicato su "La Stampa" del 16 Aprile mi ha letteralmente entusiasmato. La rievocazione dello sconquasso morale creato nel Novembre del 1956 fra la maggioranza dei redattori della casa editrice di Giulio Einaudi, a causa dell'irruzione delle truppe sovietiche in Ungheria, è un pezzo da Antologia. Lo raccomando a tutti ed a giustificazione del mio entusiasmo riporto qui l'email che ho inviato a Fruttero, grazie alla cortesia della segreteria di redazione de "La Stampa". Non ho letto tutto quello che hanno pubblicato Fruttero e Lucentini, ma sono sempre stato un ammiratore di questa coppia curiosa, l'uno piemontese d.o.c., l'altro romano filtrato da una lunga esperienza parigina. Me li ricordo, ad esempio, quando diressero per molti anni "Urania", la collana di fantascienza di Mondadori che, come "Segretissimo" e più ampiamente ancora "I Gialli Mondadori", segnò un momento importante nella divulgazione editoriale dell'Italia del boom e del dopo-boom. Riporto qui il mio email. Fruttero, che non conosco di persona, non mi ha ovviamente risposto, ma la mia ammirazione rimane intatta.


Caro Fruttero,
non so se il brano pubblicato su “La Stampa” del 16 Aprile faccia parte di “Mutandine di chiffon” di cui lei parlava nella Rubrica di Fazio (purtroppo ho perso la parte iniziale). In ogni caso, volevo disturbarla per dirle quanto mi sia piaciuto e come mi sia divertito a leggerla l’elencazione dei suoi ricordi sulla casa Einaudi sinistrata dall’invasione sovietica dell’Ungheria. Ho tre anni meno di lei (sono del 1929) e quindi credo di comprendere gli umori e i soprassalti d’epoca. Se non lo scrivesse lei non riuscirei a credere alla reazione incredula, addolorata e scandalizzata dei suoi colleghi più ortodossi di fronte ad un avvenimento che, nonostante tutto, era implicito nel patrimonio genetico di un uomo che non molti anni prima aveva freddamente e cinicamente negoziato l’accordo Molotov-Ribbentrop, avendo d'altronde suo egoistico punto di vista molti e fondati motivi per farlo. Tutto il pezzo è irresistibile, sino alla conclusione con lei issato sulle mani da Bollati per raggiungere la finestra di Einaudi. L’evocazione del sinistro, in tutti i sensi, gergo d’epoca (“ferma presa di posizione”, “fiduciosa speranza”, “valori democratici”, “sangue innocente”, eccetera) da volgere in una lingua riottosa alla retorica italiana come è l’inglese, penso faccia parte di una ideale antologia delle retoriche del passato.
Mi auguro che la sua esistenza sia meno cupamente bergmaniana di quanto faccia supporre la fotografia scattata sulla spiaggia di Castiglione della Pescaia. Che in realtà sembra una piccola località vicina alle isole Fǽr Ǿer, somiglianza ribadita da quel nodoso bastone nordico che mi pare sia lo stesso che lei teneva sulle ginocchia durante la trasmissione televisiva. In ogni caso mi felicito e mi complimento. E la ringrazio per la lezione di lucidità e di ironia che ci impartisce a 83 anni. Ci arriverò nel 2012 e spero che la sua lezione mi valga da stimolo e da ammonimento.
Sono sempre stato immerso in un humus (tiepidamente) liberale. Il suo pezzo sull’Einaudi mi fa capire di non aver sbagliato tutto nella vita.
Mi creda suo con rispetto e, se mi consente, con affetto sincero.
Claudio G. FAVA
P.S.: La canzoncina “era nata a Novi, ma non era una novizia perché sotto ai Giovi aveva perso la malizia” mi era stata insegnata da mio padre. Poiché egli era figlio di un novese e parlava perfettamente l’ispido dialetto ligure-piemontese della cittadina, l’evocazione dei Giovi (ci passavamo in treno d’Estate per andare a Novi) rappresentava per me un profondo richiamo d’infanzia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Fava, perché non una nuova telefonata a Tatti Sanguineti e qualcun'altra a Oreste De Fornari e Enrico Ghezzi?