Blog - Crediti


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11 gennaio 2012

A DOMANDA RISPONDE

Scrivo qui alcune risposte riguardanti i post via via ricevuti dopo la pubblicazione degli ultimi quattro brani sul Blog: naturalmente parto a ritroso in ordine di data, iniziando dal più lontano per tornare man mano in avanti.

Inizio con i post ricevuti dopo la pubblicazione del brano “Documentari bellici di Claudio Costa” avvenuta il 26 novembre 2011.
Ringrazio la fedelissima corrispondente Rosellina Mariani che ha apprezzato la qualità dell’ opera documentaria di Costa e so che ha avuto successivamente la possibilità di conoscerlo, visto che entrambi risiedono a Roma. Ringrazio anche un altro fedele, PuroNanoVergine il quale mi segnalava la proiezione su Iris del film di Enzo Monteleone  “El Alamein - La linea del fuoco”. Visto che mi sembra che il cinema di guerra gli interessi riproduco qui, proprio per gli espliciti riferimenti ad Enzo Monteleone ed alla sua opera, un articolo sul tema che il Professore Giorgio Fedel, purtroppo subitamente scomparso poco tempo fa, ha avuto l’estrema cortesia, inaugurando la rubrica “Ghiribizzi”, di voler pubblicare sul numero di agosto 2011 della rivista quadrimestrale “Quaderni di Scienza Politica”. Essa ha sede presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali, Sezione di Scienza Politica dell’ Università di Pavia ed è l’organo del Centro Interuniversitario di Analisi di Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP) “Mario Stoppino” (è una dizione un po’ lunga ma mi sono limitato a copiarla integralmente dalla rivista stessa). Ecco dunque il brano che mi auguro non sia troppo lungo:



- Fra il 14 e il 17 aprile 2011 ha avuto luogo nel Palazzo Ducale di Genova un’ampia  edizione de  "La Storia in Piazza” dedicata questo anno a “L’invenzione della Guerra”, durante la quale moltissimi convenuti, storici, filosofi, antropologi, hanno parlato di “come la guerra sia una chiave di lettura dei processi di modernizzazione, della costruzione dell’immaginario collettivo e della memoria pubblica”, giusto per ripetere le frasi dell’opuscolo introduttivo. Per i non genovesi ricordo che Palazzo Ducale è l’antica sede dei “Dogi” di Genova: intorno si apre la piazza centrale della città, Piazza De Ferrari. Da diversi anni l’edificio è stato completamente recuperato e riattato, con l’obbiettivo di riportarlo alla struttura di un tempo e nel giro di questi ultimi anni è diventato una delle sedi principali dell’attività museale e culturale della città. Almeno di quella ufficiale, visto che la manifestazione (la ritengo abbastanza costosa dato l’amplissimo numero di convenuti) è stata finanziata, mi è parso di capire, dal Comune di Genova e presumibilmente da altri enti pubblici. All’interno di quest’amplissima iniziativa ha avuto un piccolo spazio anche il cinema. Per l’organizzazione ci si è rivolti ad Antonella Sica e Cristiano Palozzi che da molti anni mandano avanti, sempre con meno aiuti ma con grande tenacia e capacità di invenzione, il Genova Film Festival, vale a dire la manifestazione specializzata più importante in Liguria. Poiché entrambi sono amici che mi vogliono bene mi hanno riservato, fra l’altro, mezz’ora di tempo per parlare di un mio recente libretto intitolato “Guerra in cento film” edito da Le Mani. La mezz’ora successiva era stata riservata ad un regista, Enzo Monteleone,  autore fra l’altro di ”El Alamein- La linea del fuoco”, il più recente dei diversi film centrati sulla tragica battaglia che dalla fine di ottobre e l’inizio di novembre 1942 vide l’Armata Italo-Tedesca di Rommel e Bastico schiantata e distrutta dalle forze armate inglesi in quegli avamposti del deserto egiziano che erano stati occupati con eccessivo ottimismo. Gli organizzatori hanno deciso all’ultimo momento di fondere il mio spazio con quello di Monteleone, dando vita ad un incontro di un’ora che, debbo ammettere, è stato salutato da un grande successo di pubblico. Va anche detto che nell’ora precedente è stato proiettato un commovente documentario girato dallo stesso Monteleone e centrato su alcuni superstiti della battaglia. Tutti inquadrati nella Divisione Pavia che, anche se se ne parla meno, è stata distrutta a El-Alamein come altre Divisione più note: la “Folgore”, L’”Ariete”, la “Trieste”, eccetera. La Divisione Pavia discende dalla brigata omonima costituita nel 1860 e che ha combattuto in tutte le guerre, da quella data sino alla Prima Guerra mondiale. Nell’ agosto 1939 diventa, con l’ordinamento binario, la 17° Divisione di Fanteria “Pavia”, sempre centrata sui due tradizionali Reggimenti di Fanteria, il 27° e il 28°, insieme al 26° Reggimento di Artiglieria ed ai diversi reparti di servizi collaterali. In Libia la Divisione venne dislocata nel 1940 prima sul confine Libico-Tunisino e poi nella zona ad ovest di Tripoli. Nel 1941 vi rimase sino all’aprile per essere poi trasferita, tra l’altro, nella zona di Tobruk, contenendo fra novembre e dicembre gli assalti inglesi. Successivamente venne spostata in diversi luoghi, fra cui alcuni spesso citati ora con la rivolta in Libia. Ad esempio Bengasi e Agedabia. Nel 1942 infine, dopo diversi spostamenti fra Tobruk, Bardia e Sollum, la “Pavia” fini con l’arrestarsi davanti ad El-Alamein. In ottobre e sino al 3 novembre la Divisione dovette arretrare verso la cosiddetta depressione di El Qattara. Qui le retroguardie, raggiunte dalle unità corazzate inglesi, furono annientate. Successivamente tutti gli altri reparti vennero accerchiati e sopraffatti. Il 25 novembre la Divisione, che in patria aveva sede a Ravenna, venne sciolta e non mi risulta che sia stata più ricostituita. Alcuni dei superstiti intervistati nel frattempo sono morti (i più giovani erano ultra ottantenni) e la loro testimonianza risulta al tempo stesso decisiva e terribile. Un esercito di reclute spedite con fucili modello ’91, fasce mollettiere, scarpe da tennis e pesantissimi caschi coloniali (quelli inglesi erano saggiamente leggerissimi) a morire nel deserto, con poco cibo scadente e pochissima acqua. Io mi sono commosso diverse volte nel vedere il documentario- credo sia allegato al DVD del film- anche perché la lucida consapevolezza dei protagonisti sulla terribilità della guerra si sposava anche ad una sorta rattenuta dignità: quei vecchi spesso ribadivano che non si erano mai arresi formalmente e che avevano cessato la resistenza quando non avevano più munizioni, viveri e rinforzi di fronte ad un nemico ricco e organizzato, splendidamente armato e rifornito di ogni ben di Dio, dalla frutta sciroppata ai liquori ed all’acqua che giungeva spesso in prima linea direttamente grazie a tubature (gli italiani, quando la ricevevano, dovevano accontentarsi di un liquido disgustoso contenuto nelle taniche inizialmente destinate alla benzina e alla nafta).
A parte il fatto che ho dovuto superare il giusto imbarazzo e l’amarezza di Monteleone perché il suo film non era stato menzionato nel mio libro (mi sembra poco probabile che ci sia una seconda edizione, ma in questo caso farò il possibile per ovviare alla mancanza) dalle immagini e dalle nostre parole è balzato fuori ancora una volta il problema di fondo del cinema di guerra. E cioè la sostanziale impossibilità di ricreare nei volti degli attori – i protagonisti come le comparse – quel gelido sapore di paura che la guerra crea nel volto e negli occhi di chi deve sopportarla. So di cosa parlo perché, pure essendo nato nel 1929 (ero bambino all’inizio del conflitto ed entravo nell’adolescenza alla sua fine) ricordo lucidamente quel che si vedeva nei visi delle persone che mi stavano intorno durante i bombardamenti. Sia quelli aerei, che furono così intensi negli ultimi tempi del conflitto, sia quello navale del 9 febbraio 1941, quando la flotta inglese sparò almeno per tre quarti d’ora bordate su bordate di grossi calibri contro la mia città, Genova, totalmente incapace di difendersi (casa mia, nel centro della città, venne tagliata come una torta da un 305). Il paradosso dei film centrati sulla guerra, o che della guerra in qualche modo risentono, è tutto qui. Ed è straordinario il talento di alcuni grandi registi (a volte famosi, a volte dimenticati o per sempre sconosciuti) nel ritrovare nelle inquadrature almeno il sapore lontano di quella paura, così come dello sconvolgimento creato in un medio essere umano dalla necessità di uccidere (o di essere uccisi).
Varrà la pena di fare qualche titolo. Rimanendo nel discutibile ambito dei cento film citati nel mio libretto (per motivi di spazio ho rinunciato alla grande eredità del cinema muto, a tutti i film ambientati prima della Grande Guerra ed ho dedicato al massimo una scheda di film ad un regista, eventualmente evocando altre opere nel testo) vorrei menzionare alcuni dei titoli che mi sono più cari. Prima di tutto il film che in assoluto prediligo al mondo e cioè “La Grande illusione” (1937) di Jean Renoir, ove con mano magistrale sono disegnate le ascisse e le ordinate del modo in cui la guerra esplode. E cioè, nel momento stesso in cui i protagonisti cadono prigionieri, vengono alla luce, da un lato, la fraternità che si instaura fra i combattenti, e dall’altro, la sopravvivenza decisiva dei legami di educazione, di situazione sociale e di casta i quali si intrecciano fra nemici che sono molto più simili tra loro di quanto non lo siano con i camerati di combattimento. La silenziosa amicizia che nasce fra il patrizio tedesco  Erich von Stroheim e quello francese Pierre Fresnay (il primo sarà costretto ad uccidere il secondo) implica una secolare affinità che supera ogni senso patriottico di appartenenza. Ancora qualche titolo: “All’ovest niente di nuovo” di  Levis Milestone (1930), “Alfa Tau!” di Francesco De Robertis (1942) e dello stesso anno “Eroi del mare” di Noel Coward e David Lean, “Casablanca” di Michael Curtiz (1943), “Prigionieri dell’oceano” di Alfred Hitchcock (1944), “I sacrificati di Bataan” di John Ford (1945), “Paisà” di Roberto Rossellini (1946), “Bastogne” di William A. Welman e “Cielo di  Fuoco” di Henry King (entrambi del 1949), “Mare crudele” di Charles Frend (1953), “I ponti di Toko-Ri” di Mark Robson (1954), “Un condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson (1956) “I dannati di Varsavia” di Andrzej Wajda  “Duello nell’Atlantico” di Dick Powell (entrambi del 1957) tempo di vivere di Douglas Sirk (1958), “La Grande Guerra” di Mario Monicelli (1959), “Tutti a Casa” di Luigi Comencini (1960) “317° Battaglione d’assalto” di Pierre Schoendoerffer, “L’Armata degli eroi” di Jean-Pierre Melville (1969), “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle (1974), “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola (1979), “U-Boot” di Wolfgang Petersen (1981), “Anni ‘40” di John Boorman (1987), “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1998), “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow (2008).
E’ un elenco lungo, e spero non troppo fastidioso, ma è anche al tempo stesso un elenco breve perché mancano forse altrettanti film. E non è detto che in quelli che ho citato il fondamentale senso di paura a cui ho fatto allusione in precedenza sia sempre sensibile e consapevole. Ma probabilmente in tutte queste opere si avverte almeno un brivido di quel misterioso enigma, di quella forzata e infinità crudeltà, di quella disciplinata mostruosità che resta la guerra.-

Veniamo adesso ai post pervenuti dopo la pubblicazione di “Solo la Parigi del passato funziona nell’ Europa del presente” (3 dicembre 2011) riguardante il film di Woody Allen “Paris in Midnight”(faccio presente che sul film stesso ho intenzione di ritornare fra breve con un brano che esamini la parte temporalmente più vicina a noi della sua opera di regista). Anche qui un ringraziamento a Rosellina Mariani, un altro a Anonimo che mi auguro nel frattempo abbia avuto occasione di vedere il film, ed a Ivana. È vero quel che scrive rilevando la consapevolezza “per cui è illusione pensare che saremmo più felici, più appagati, più soddisfatti se potessimo vivere in un’altra epoca”. Credo che tutti, in tutte le generazioni, abbiano la tentazione di cedere a suggestioni del genere (per esempio a me sarebbe piaciuto vivere nella Torino di metà dell’Ottocento, con Cavour Presidente del Consiglio; è vero che non avrei trovato dentisti come quelli di oggi, tute comode come quelle di oggi e taxi rapidi come quelli di oggi). Appunto come dice Ivana “è il presente che ci angoscia” (e non parliamo del presente di questi ultimi mesi che è particolarmente terrorizzante).

A proposito del “Mito dell’allenatore” (16 dicembre 2011) ringrazio Enrico per le citazioni riguardanti Cosmi, Chiappella, Pugliese, Sacchi (“il mellifluo”) e Scopigno (detto misteriosamente “il filosofo”). Su Nereo Rocco esiste in effetti un’ ampia letteratura che qui non si può rievocare. In fatto di seduzioni linguistiche ho notato che sono soprattutto i giornalisti meridionali a compiacersi di chiamarlo “El Paròn”.

La “Duplice moviola telefonica” ha provocato due interventi. Ringrazio Anonimo (M.S.) e rilevo che PuroNanoVergine ha ancora una volta ribadito la sua infallibilità facendomi rilevare che un autore da me menzionato si chiama Claudio Bartolini e non Bartoli. PuroNanoVergine si è anche accorto che scrivo su “FilmTv”. Per l’ esattezza vi tengo una piccola rubrica rievocativa, intitolata  “Salvate la tigre”, che appare ogni primo martedì del mese.

Il brano “I necrologi e la vita” ha provocato quattro post. In uno “pc”(so chi è) ha scritto allegramente che “ovunque sia la Marchesa legge questo Blog e sorride”. Dal canto suo Rosellina mi dice che l’ articolo l’ha aperta al sorriso…del che mi compiaccio. Strepitosa la rievocazione di Enrico che cita la suocera la quale, iniziando la lettura del quotidiano dai necrologi, esclamava ogni volta: “anche oggi io non ci sono!”. A proposito degli Incisa della Rocchetta e degli Incisa di Camerana ritengo che queste due vecchie famiglie aleramiche abbiano uno stipite comune, anche se non so indicarglielo con sicurezza. Incisa di Camerana ne ho conosciuto ben due, che curiosamente non erano in contatto fra di loro e non si conoscevano. Uno era un importante esercente di cinema sia a Milano che a Genova (professione un tempo particolarmente redditizia). L’altro era il mio amico Vincenzo (suo fratello Bonifazio fu anche Capo di Stato Maggiore dell’ Esercito Italiano”) il quale nella Rai di Bernabei ricopriva un incarico delicatissimo. A capo di quel che si chiamava il “Servizio programmi” era di fatto incaricato di una discreta e non invadente censura appunto sui programmi destinati alla imminente messa in onda. Morì in automobile durante un viaggio di servizio. Anche sua moglie apparteneva ad una nobile famiglia piemontese, gli Accusani di Ritorto. Il Carlo Incisa di Camerana, che lavora alla Sezione Grafici del Tg3 credo sia loro figlio.

2 commenti:

PuroNanoVergine ha detto...

La ringrazio per la risposta e per aver riportato l'articolo sui film di guerra (non sono comunque un esperto del settore).

Nego nel modo più assoluto di essere infallibile ("dono" che renderebbe qualsiasi individuo antipatico e noioso :-)).

Leggo con piacere i suoi articoli su Film TV: purtroppo sono troppo brevi, soprattutto se raffrontati ai post del blog.
La speranza è che il direttore Aldo Fittante Le conceda, come meriterebbe, maggior spazio.

Rosellina Mariani ha detto...

Grazie per i ringraziamenti in attesa dei prossimi articoli e delle telefonate sempre succulente!