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24 aprile 2012

UN ESEMPIO (IL MIO) DI GIORNALISMO ALLA ROVESCIA

Da qualche tempo io ho una piccola rubrica quindicinale nelle pagine sportive del Secolo XIX. Ho scelto il titolo, “Con la matita rossa e la matita blu”, a cui la redazione ha anteposto un occhiello che diceva “Il tifoso” e che adesso è stato modificato “Il supporter”, perché a me la parola tifoso, che continua a significare prima di tutto “malato di tifo”, non piace e non è mai piaciuta. Lo faccio perché mi diverto sin da bambino a seguire il gioco del calcio. Che ora, attraverso Sky, con le sue innumerevoli partite sparpagliate fra il sabato e il lunedì, è diventato tentatore ed ossessivo per chi nutre una certa debolezza per il tema. Faccio presente che sono stato prescelto poiché tutti sanno che sono nativamente genoano. Debolezza che risale a prima della guerra, quando un giorno mio padre venne a casa per il pranzo ed a tavola mi consegnò solennemente un piccolo rettangolo istoriato per accedere alla tribuna numerata dello stadio di Marassi (si chiama Luigi Ferraris dal nome di un ufficiale caduto durante la prima guerra mondiale). Per un bambino che poteva avere 7 o 8 anni quella consegna fu un momento liturgico di cui non mi dimenticherò mai. Una sorta di investitura cavalleresca, un po’ come quella di essere nominato Templiario in pieno Medioevo (sia detto incidentalmente la tessera riguardava le partite di una squadra chiamata Genova, perché il fascismo aveva imperiosamente modificato l’originario nome di Genova Cricket and Football Club. Ma forse io non lo sapevo neppure). Da allora, pur con lunghi momenti di disinteresse, quell’investitura ha evidentemente fermentato nel mio cuore e nella mia mente, lasciando delle tracce che si sono via via complicate man mano che approfondivo la storia della Società e il fatto che fosse stata fondata da un gruppo di inglesi i quali si trovavano nella città per motivi di lavoro. Tenuto conto dell’attuale situazione di Genova la cosa può sembrare inverosimile ma allora su 500.000 abitanti almeno 5.000 erano inglesi, ed erano venuti tutti perché la città, e non Milano e Roma, era l’approdo naturale dei cittadini britannici incaricati di svolgere un compito in Italia. Infatti non solo il porto, allora largamente il più importante di tutti, ma Genova, nella sua interezza, costituivano un punto di riferimento quasi automatico per le strutture industriali del mondo inglese. Per ricostruire il periodo storico, si ricordi che quando il Genoa, nel 1893 venne fondato, prima squadra di calcio in Italia, il Governo italiano era retto dal primo ministero Giolitti e quello britannico dall’ultimo ministero Gladstone, durante la quarta “Premiership” del politico inglese. Era il periodo finale del lungo regno della Regina Vittoria (morì nel 1901) che, nel bene e nel male, aveva segnato un momento decisivo nella storia dell’ Inghilterra e nel costume dell’800. Non è un caso che Kipling abbia pubblicato il primo “Libro della giungla” proprio fra il 1893 e il 1894 mentre “Capitani coraggiosi” risale al 1897 e “Kim” al 1901 (tipiche di quegli anni sono anche alcune poesie famose, come “Gunga Din” del 1892 e “If” del 1895). Questo antico rapporto con un passato, al tempo stesso lontano e vicino, credo che mi abbia sempre influenzato, consentendomi di stabilire istintivamente una sorta di parallelo fra i destini dell’Inghilterra e quelli del Genoa. La prima è una nazione spesso poco simpatica, ed a momenti addirittura antipatica, la quale però ha un piccolo difetto, che in realtà è un grande pregio. Vale a dire quello di non arrendersi nei momenti del pericolo decisivo. Lo dimostrò tante volte nel corso della sua storia e la più vicina a noi risale all’estate del 1940. Mezzo mondo la incitava a venire a patti con Hitler, le cui truppe avevano dilagato in Francia mettendo fuori combattimento in meno di due mesi quello che era considerato il più forte esercito del mondo. Ma Churchill seppe radunare intorno a sé tutte le energie necessarie e in 5 anni vinse un conflitto mondiale che sembrava totalmente compromesso. Così, nel suo piccolo, sempre che il paragone non risulti goffamente esagerato, anche il Genoa e i genoani hanno sempre rifiutato di arrendersi, sopravvivendo a tutto, in 119 anni di una storia ricca come poche di colpi di scena. La mia rubrica avrebbe dovuto apparire martedì 24 aprile, vale a dire due giorni dopo che la partita fra il Genoa e il Siena era stata funestata a Marassi da una irruzione di Ultrà ai quali erano riusciti a farla sospendere per 40 minuti facendosi consegnare da quasi tutti i giocatori. Martedì il Secolo uscì con molte pagine di sport dedicate a quel che resta un caso fino ad oggi unico nella storia del calcio italiano, con deprecazioni palesi e prese di posizione molto decise. La mattina del lunedì inviai la mia rubrica (prevista in 2600 battute) facendo cenno di quel che era avvenuto ed anche della seconda parte della domenica da me dedicata a seguire su due televisioni francesi i risultati delle elezioni subalpine. Soltanto adesso mi sono reso conto che, probabilmente, la mia rubrica non si accordava con la tonalità generale espressa dal giornale e rischiava di apparire quasi estranea e snobisticamente “escapiste”. Comunque non è stata pubblicata. E’ una delle poche volte, in più di mezzo secolo di mestiere, che fra migliaia di pezzi che ho scritto e firmato sono stato costretto a rendermi conto di un rifiuto. Ci ho pensato molto ed ho concluso che, probabilmente, i colleghi del Secolo avevano avuto ragione, sia perché chi impagina ha sempre ragione (se no i giornali non si riuscirebbero mai a portare a termine) sia perché nel mio sforzo di sincerità ho rischiato di sembrare estraneo alla commozione generale. Va detto che io sono persuaso di una cosa, e cioè il mutamento dei tempi e la caduta della compatta adesione ai grandi partiti abbiano profondamente influenzato quella parte della popolazione in un certo modo vedova di una militanza continua, sostituita ora dalla turbolenta presenza delle file della cosiddetta “tifoseria” organizzata. In ogni caso che io abbia sbagliato o no, ho ricevuto una lezione, difficile da assimilare alla mia età, su cui tuttavia dovrò probabilmente meditare. Perché, se ne hanno voglia i lettori del Blog, possano rendersi conto dell’accaduto, ho pensato di pubblicare qui in allegato il testo da me inviato al giornale. Vorrei che il mio intento fosse chiaro. Non c’è in me nessun sottinteso polemico ma se mai l’intenzione di ricordare a me e agli altri che il giornalismo è un mestiere difficile e che va sempre praticato con un forte senso di rigore (che poi le pretese degli Ultrà di ottenere le maglie dei giocatori, che sarebbero state indegni di indossarle, e non solamente, come sono, incapaci di giocare bene al pallone, abbiano un loro configurazione fra l’ottocentesco e il militaresco che andrebbe analizzata in un più ampio contesto sociologico, è ancora un altro paio di maniche). 
Ecco il testo della rubrica: 

UN POMERIGGIO DA RICORDARE 

E’ ben più di mezzo secolo che scrivo, come si diceva una volta, “su per le Gazzette”. Ho sparpagliato frivolmente nel mondo migliaia e migliaia di articoli eppure non mi è mai successo di stentare a trovare le prime parole introduttive, quelle che i vecchi cronisti all’antica chiamavano “l’incomincio”. Ma è accaduto questa volta. Come si inizia a parlare della tragicommedia del Ferraris, e come si continua? La cessione delle maglie raccolte mestamente da Marco Rossi e poi la coraggiosa ribellione di Sculli che sale ad abbracciare uno degli Ultrà ma che fa capire chiaramente che lui la maglia non se la toglie perché l’ha portata con onore (Gaia Piccardi, nel Corriere della Sera di oggi, scrive che è “il nipote del Boss di Africo Giuseppe Morabito detto U Tiradrittu”, che non so chi sia. A me il suo scoppio di aggressività calabrese ha ricordato piuttosto certi fanti della sua terra che, mentre i generali scappavano, si batterono disperatamente a viso aperto contro Garibaldi agli ordini di Beneventano del Bosco). Non so veramente che cosa muova i cuori e le menti degli Ultrà di ieri. Supponendo che siano in totale buona fede mi stupisco che non abbiano capito che i giocatori del Genoa giocano male non perché lo vogliono ma perché in maggioranza non sanno giocar bene e trascinano i pochi bravi (Frey, Palacio e il troppo vecchio Kaladze). Sempre nel Corriere di oggi Mario Sconcerti, che conosce Genova perché ci ha lavorato, scrive fra l’altro: “Il genoano ha un rapporto viscerale, assoluto, con i colori del Genoa, poco razionale. Essere del Genoa è essere della città, avere il mare davanti e la storia alle spalle”. E’ una sensazione che ho imparato da bambino e che poi, con il trascorrere dei decenni, si è fortemente attutita. Mi chiedo se gesti come quelli compiuti ieri a Marassi non la facciano scomparire totalmente. Fra l’altro il pomeriggio di ieri era segnato anche dalla chiusura delle votazioni francesi. Con il televisore, lasciando la terribile partita con il Siena, sono rimbalzato sulle due reti francesi che si vedono con i satelliti, “France 24” e “Tv5 Europe”ed ho seguito, come faccio sempre per l’Italia e per la Francia, la fine delle votazioni e l’inizio dei dibattiti. Ho sentito tutto, compresi gli interventi di Hollande, Marine Le Pen e Sarkozy. Alla fine, al di là dell’interesse specifico, ho in parte provato, come sempre quando i politici dicono comunque di avere tutti vinto, lo stesso senso di incredulità che avevo avvertito qualche ore prima guardando ad occhi sbarrati il triste spettacolo del Ferraris. Non è un mondo facile, il nostro. 

Claudio G.Fava. 

Battute 2.595.

6 commenti:

Principe Myskin ha detto...

Del pomeriggio del Ferraris mi ha colpito quel lungo momento in cui i giocatori del Genoa e il Presidente, da un lato, e i tifosi appollaiati sul sottopassaggio, si fronteggiavano immobili.

Una via di mezzo tra il clou di un duello western (imbarazzante stabilire chi fossero gli sceriffi) e il momento decisivo di un arrivo in gruppo al Tour, dove chi lancia la volata sa che perderà.

Ora vado a vedere I migliori anni della nostra vita che ho recuperato oggi.

f. ha detto...

Imbarazzante, non trovo altro aggettivo, i giocatori del Genoa che ammucchiano le magliette, come uno spogliarello costretto con la forza. Sono d'accodo con lei, la disgregazione sociale apre la via a altre forme di socialità, non sempre piacevoli. Un pensiero, che forse non c'entra nulla. Radiorai3 ha trasmesso, il 25 aprile, insieme ai concerti, letture delle Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza. Sono rimasta colpita soprattutto dal senso di dignità di quell eprsone, eroi, certo, ma anche persone normali, padre e madri, normali.. Fiorella

f. ha detto...

Imbarazzante, non trovo altro aggettivo, i giocatori del Genoa che ammucchiano le magliette, come uno spogliarello costretto con la forza. Sono d'accodo con lei, la disgregazione sociale apre la via a altre forme di socialità, non sempre piacevoli. Un pensiero, che forse non c'entra nulla. Radiorai3 ha trasmesso, il 25 aprile, insieme ai concerti, letture delle Lettere dei Condannati a Morte della Resistenza. Sono rimasta colpita soprattutto dal senso di dignità di quell eprsone, eroi, certo, ma anche persone normali, padre e madri, normali.. Fiorella

Rosellina Mariani ha detto...

No, non è un modo facile il nostro, hai ragione! ma per fortuna ci sono persone con il tuo rigore , la tua capacità e la tua eleganza che lo rendono più facile!

Anonimo ha detto...

Dopotutto gli Ultas sono quelli che pagano il Biglietto, quindi i datori di lavoro...Non ci sono state scene di violenza gratuita ne motti razzisti sparati a casaccio(come accade in altre "curve" più famose) ma, semplicemente, un simbolico "licenziamento" dei lavoratori del calcio...Non giocate bene a casa...
M.

Rear Window ha detto...

Genova è la mia città e sono genoano da sempre, anche se non sono un "supporter" accanito. Io credo che il nostro Paese viva prima di tutto un forte disagio culturale. Negli ultimi 25/30 il nostro tessuto sociale si è progressivamente logorato. Abbiamo assistito all' affossamento della scuola e della cultura in genere, alla denigrazione dei diversi, alla promozione di un clima di intolleranza ed ignoranza, allo svilimento delle istituzioni e dei partiti. Non è irragionevole quindi pensare che anche quanto successo domenica a Marassi sia figlio di questo triste clima, dal quale non sarà così facile uscire fuori.