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27 novembre 2013

MA L'AMORE NO

Un omaggio che nasce dal cuore in memoria del caro amico Francesco Savio (Pavolini) detto "Chicco".

Cercando di mettere ordine nella mia bibliotechina casalinga, e via via schedando libri che non avevo mai neppure pensato di schedare, saltano fuori sorprese di ogni tipo. Alcune graditissime. Ad esempio pochi giorni fa mi è tornato tra le mani, dopo decenni, un libro di cinema molto importante, sia per l’argomento e il modo di trattarlo che per il rilievo assunto per la personalità dall’autore. Si tratta di un libro che è opera di un amico. Si intitola “Ma l’amore no”, edito da Sonzogno nel 1976, ed è corredato da un sommario giustamente esplicativo che dice: “Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943)”.
Il libro non è soltanto, come ho scritto prima, molto importante ma è anche una testimonianza toccante di una presenza al tempo stesso amichevole e tragica. E cioè quella del suo autore, Francesco Savio (1923-1976), che me lo volle dedicare con una frase esageratamente lusinghiera: “al mio amico e maestro” firmata: “Chicco”, che era il diminutivo con cui solitamente lo chiamavano gli amici ( lo obbligai anche ad aggiungere alla dedica il mio nome e cognome, altrimenti la frase sarebbe parsa quasi incomprensibile) Chicco era appunto un personaggio straordinario, segnato da una fine terribile e proveniente da una famiglia su cui la tragedia si era già accanita. Il cognome Savio fu una sua invenzione per non usare quello vero che egli odiava ( me lo disse una volta: “Non usare quel cognome che io detesto”). In effetti si chiamava Pavolini ed era il figlio di Corrado Pavolini (1898-1980), che fu poeta (lo si avvicinò addirittura a Cardarelli), saggista,autore teatrale e sceneggiatore cinematografico. Penso sia stato fascista come quasi tutti nell’ambiente letterario e giornalistico dell’epoca, ma senza fanatismi. Il fanatico, in realtà, in famiglia c’era e fu quell’Alessandro Pavolini (1903-1945), fratello minore di Corrado, squadrista della prima ora ma anche scrittore elegante e colto che, in un soprassalto mortale di incontrollata faziosità, divenne durante la repubblica di Salò segretario del Partito Fascista Repubblicano. E fu fondatore di quelle Brigate Nere che della Repubblica sono state le truppe moralmente meno difendibili. La ventata rabbiosa di aggressiva ferocia che contraddistinse soprattutto la parte finale della vita di Alessandro Pavolini è rappresentata da mille avvenimento e da un “piccolo” aneddoto famigliare. La moglie di Corrado, e quindi la madre di Chicco, era ebrea e si chiamava Marcella Hannau (lavorò, poi, con lui, che ne era Caporedattore, in quella pubblicazione preziosa e purtroppo dissolta, che fu l’”Enciclopedia dello Spettacolo”). Nel 1944, ovviamente prima dell’arrivo degli alleati a Roma, Corrado Pavolini scoperse che Alessandro aveva in animo di fare arrestare la cognata (madre di Chicco) appunto perché era ebrea. Allora, secondo quello che mi raccontò egli stesso, suo padre chiamò il fratello al telefono e gli disse: “Ho saputo che vuoi fare arrestare Marcella. Facciamo una cosa: vieni in casa nel primo pomeriggio e troverai lei, me e i miei due figli, che sono i tuoi nipoti. Così potrai farci arrestare tutti insieme”. Evidentemente davanti ad una frase del genere perfino ad Alessandro Pavolini tornò momentaneamente la ragione e rinunciò all’arresto. Questo terribile passato aveva così profondamente segnato l’animo e la mente di Chicco che egli cercò in ogni modo di far dimenticare il suo vero cognome (non tutti, evidentemente, in famiglia hanno avuto la stessa sofferente sensibilità. Suo fratello Luca, conservando senza problemi il cognome Pavolini, fu un militante comunista ed arrivò sino a dirigere l’Unità dal 1975 al 1977). Infatti  Chicco (dopo aver frequentato l’Accademia e tentato la carriera d’attore) si rese noto come, critico e storico del cinema di alto livello appunto con lo pseudonimo di Francesco Savio. A questo titolo curò la Mostra di Venezia, alcune delle più belle retrospettive dell’epoca (in un mondo senza DVD e senza Youtube migliaia di film potevano essere visti solo dai fortunati frequentatori di Cineteche o presenti in alcune specifiche e preziose manifestazioni internazionali). E più largamente dedicò al cinema una minuta, semi-nascosta e straordinaria opera di analisi e di recupero. Moltissime sono le pubblicazioni e i temi che egli curò e sviluppò, mi limiterò a ricordare “Cinecittà anni Trenta” (nata dalla stessa ricerca che portò alla creazione del libro di cui sto parlando) quando negli anni ‘70 intervistò praticamente tutti i superstiti del cinema italiano del passato, lasciandoci una documentazione senza pari, frutto di scrupolo filologico ma anche di grande passione di parte. Oppure nella stessa ottica di ricerca uno straordinario libro in cui analizzò, gesto per gesto e movimento per movimento, molti film di Chaplin del periodo iniziale della carriera, per i quali non esistevano “trascrizioni scritte”. Furono mesi di furiosa solitudine davanti alla moviola negli uffici londinesi del British Film Institute (al punto che durante un periodo di ferie gli lasciarono addirittura le chiavi di un appartamento con tutti i tesori cinematografici contenuti). I suoi meriti per anni furono conosciuti e apprezzati soprattutto dagli appassionati, fino a quando, verso la metà degli anni ’70 raggiunse finalmente la notorietà che meritava, grazie ai suoi libri ed al fatto che ha ottenuto la rubrica cinematografica di un importante settimanale. Proprio in quel momento, nel 1976, egli si uccise. Se le notizie dell’epoca furono esatte lo fece con una decisione particolarmente sinistra, insinuando la testa nel forno a gas della cucina. Quasi a ribadire la vocazione mortale che avvelenava la famiglia, pochi mesi dopo si uccise anche sua moglie (che non ho mai conosciuto). Un particolare sinistro è che Chicco aveva evidentemente così a lungo meditato la sua morte al punto di preparare (ed evidentemente pagare, visto che venne pubblicato) il suo necrologio per il “Messaggero”. Esso cominciava con una frase spaventosa: “oggi Francesco Savio ha scritto la sua ultima recensione”…
Potrei continuare con i ricordi. Ad esempio ho visto al suo fianco, per diverse sere, nella sede romana dell’ANICA, tutti i documentari che il giornale LUCE aveva dedicato al fascismo: da quello, se ricordo bene ancora muto, sul matrimonio di Galeazzo Ciano con Edda Mussolini alle ultime puntate nell’estate del 1943: all’epoca la televisione non dispensava molto materiale del genere e quell’occasione, dovuta ad una benemerita iniziativa di Ernesto G. Laura, rimase indimenticabile per gli appassionati di recente storia italiana. Ma mi limiterò qui a parlare di quel suo libro, “Ma l’amore no” di cui ho fatto cenno all’inizio. Credo doveroso ricordare per i più giovani che era anche soprattutto il titolo di una famosa canzone che provocò molte lacrime (anche le mie, di studente di terza media, nel 1943, sfollato ad Arezzo) fra gli spettatori di un film del 1942 di Mario Mattoli, all’epoca notissimo: “Stasera niente di nuovo”. Interpretato da Carlo Ninchi e da Alida Valli, che in quell’occasione si improvvisò anche cantante, il film resta un esempio molto importante della quadrilogia di Mario Mattoli detta dei “film che parlano al vostro cuore” . Gli altri titoli erano “Luce nelle tenebre”(1941), “Catene invisibili”(1942), “Labbra serrate”(1942). Giustamente Chicco scelse quella canzone tipica, scritta da Giovanni D’Anzi (quello di “Oh mia bella Madunina”) come implicito riassunto di tutto un lungo momento della storia del cinema sonoro italiano, iniziato con “La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli e terminato sostanzialmente con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Come ribadisce lo stesso Savio “fra il 1930 e il 1943 sono stati prodotti in Italia- ma girati talvolta a Berlino, a Parigi, e in Spagna- 722 film a soggetto”.  Di fatto tutto un mondo (del cinema ma anche dell’Italia) si esaurì in quei 13 anni. I film censiti da Francesco Savio sono 720. Per 228 di essi i “dati tecnici sono stati desunti alla moviola dai titoli di testa, e cioè dalla stessa copia, positiva o negativa, nitrata o ininfiammabile”. Un lavoro enorme che consentii all’autore di fornire un quadro straordinariamente completo dei dati tecnici e artistici di ogni film e che poteva essere compiuto, di fatto di persona, sugli originali dell’opera. Un’ operazione che riusciva possibile a un numero relativamente basso di privilegiati. Pertanto nel libro i singoli film si trovano incolonnati in ordine alfabetico con note d’ambiente e critiche d’epoca.
Il che significa che, in ordine alfabetico da “Abbandono” (1940) di Mario Mattoli (con Corinna Luchaire, Maria Denis, Camillo Pilotto, Enrico Glori, Osvaldo Valenti) a “La zia smemorata di Carlo” (1941) di Ladislas Vajda (con Dina Galli, Osvaldo Valenti, Carlo Campanini), c’è tutto un mondo. E, soprattutto tutta l’Italia, che va da quella di Benito Mussolini, quasi ancora con le ghette, a quella dell’8 settembre, con lo stesso Mussolini rinchiuso all’Hotel Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e Vittorio Emanuele III e Badoglio incolonnati per imbarcarsi, dopo la sosta a Crecchio presso i Duchi di Bovino,  sulla Corvetta “Baionetta” a Ortona a Mare, e raggiungere Brindisi. Il bello, il brutto, il banale, il servile, l’ovvio, il furbesco ma anche l’ingegnoso e il (quasi) geniale, che animarono il cinema italiano durante quei tredici anni decisivi sono tutti riassunti qui. Basta sfogliare il libro per provare un’emozione speciale e particolare. Che non riesco a restituire perché dovrei qui allineare decine se non centinaia di titoli. Operazione che non intendo fare adesso (non escludo di recuperarla in futuro, se vi fossero specifiche richieste dei lettori).
Il libro non avrebbe senso senza la sottile, raffinata, appassionata personalissima lunga introduzione di Francesco Savio, che si estende in corpo piccolo per più di venti pagine. Analizzarla tutta sarebbe affascinante ma troppo esteso, c’è anche un toccante rinvio ad una dolorosa storia di famiglia: suo nonno, Paolo Emilio Pavolini fu un famoso filologo e linguista, padrone di moltissimi idiomi dal Sanscrito al Finlandese. Membro dell’Accademia d’Italia lasciò la famiglia per una giovine e bella ragazza nordica e consegnò al nipote la sua tessera di libero ingresso in tutti i cinematografi d’Italia “per S.E. ed accompagnatori”: grazie ad essa Chicco portava al cinema tutti i compagni di classe. Parlava del nonno con grande tenerezza: “un’estate- mi disse una volta- volle insegnarmi il malese delle isole. Per quel che riguarda la decisiva introduzione al libro mi limiterò a riportarne qui le prime righe, che danno già il senso di quelli che erano l’animo e la tecnica, l’intenzione e l’applicazione di un autore raro e (tragicamente) solitario. Ecco dunque:
“Certo giorni mi chiedo se è decente parlare di un film senza averlo toccato almeno una volta, senza averne aspirato il profumo, o fatto pila delle sue bobine. Mi chiedo, anche, se non basterebbe aprire al pubblico le Cineteche, e tenervi delle visite guidate: a sinistra, secondo scaffale, il negativo di Darò un milione; a destra il controtipo positivo di Giacomo l’idealista e di Ragazzo. A misura che il tempo trascorre, ed i film cosiddetti da museo mi diventano d’anno in anno più fraterni, godibili e attuali, tutto questo gran discorrere del cinema come d’un fenomeno inscindibile dal suo contesto storico mi arreca un crescente imbarazzo. Eccoli, i film, verebbe da esclamare: sta tutto chiuso la dentro, nelle spire ravvolte intorno al “nucleo”. Non domandate loro altro segreto, se non quello custodito dall’emulsione. Ma è pur vero, e bisogna riconoscere, che un ombra delle antiche proiezioni resta come inchiodata ai fotogrammi (non so: la “coda” di un Giornale-Luce, di un Topolino o di un prossimamente); e che i film di una data temperie serbano l’eco, affievolita e impropria, di un costume, di un clima, di un gusto”.

Già da questo incipit si può cogliere l’impasto profondo di slancio poetico e di amore “tecnico” che reggevano la cinefilia di Chicco. In un’epoca in cui, non esistendo l’immenso mondo digitale, e con una televisione che stava appena abbandonando l’avarizia in fatto di cinema, il gusto fisico di maneggiare, scrutare, “aggiustare”, far scorrere la pellicola (“I film- aveva l’abitudine di dire- si vedono da soli e in moviola”) era determinante. E, come accadde con lui, lo strumento per far vibrare appunto intorno all’immagine l’infinito tremore della poesia.

9 commenti:

Rosellina Mariani ha detto...

Queste storie che racconti nei tuoi articoli mi appassionano sempre molto perchè rivelano la complessità e la ricchezza degli individui mai fermandosi alle "apparenze" o alle "etichette" molto spesso appiccicate dalla cretineria umana.
Grazie per l'articolo

Simone Starace ha detto...

Grazie per il bel ricordo. Francesco Savio, per i cinefili che amano e hanno amato il cinema italiano classico, resta ancora oggi una frequentazione quasi quotidiana, di quelle che arricchiscono ogni volta.

Anonimo ha detto...

Bellissimo pezzo.

Giulio Fedeli ha detto...

Grazie, Claudio G., mille volte grazie per questo pezzo, emozionante, informatissimo, molto ben scritto. Quando "entrai in cinefilia", 'monsù' Baldo Vallero mi impose la conoscenza obbligatoria di "Ma l'amore no", risultato finale di un lavoro che pone il nome di Francesco Savio sullo stesso piano di un Henri Langlois o di Maria Adriana Prolo.
Non conoscevo il dettaglio relativo alle modalità del suicidio di Savio, modalità analoghe a quelle messe in atto dall'immenso Yasunari Kawabata.
Complimenti per il riferimento al capostipite della incredibile famiglia Pavolini, cioè a Paolo Emilio. Linguista di valore che oggi nessuno più ricorda o cita (salvo, appunto, quell'uomo di finissima cultura che è Claudio G. Fava).
Mi piacciono moltissimo questi 'viaggi' intorno a nomi, o testate giornalistiche, o istituzioni, tanto meritevoli quanto "fuori quadro" oggigiorno. E allora mi permetto di 'buttarne lì' qualcuno, nella speranza che i tuoi ricordi ci regalino qualche altro elzeviro. Che ricordo ti è rimasto di Franco Scarmiglia, romano del rione Monti, e della collaborazione con la "Rivista del Cinematografo"? Sai che quella bellissima fotografia con Jacques Perrin e Jean Rochefort in uniforme che Franco mise in copertina della "Rivista" per onorare la tua recensione de "L'uomo del fiume", oggi -debitamente incorniciata- è oggi appesa qui, sul muro a destra del mio tavolo da lavoro?
E quante illustrazioni preparò Elena Pongiglione sempre per la "Rivista"? Uno sicuramente finì in copertina in occasione del ciclo televisivo di film intitolato -chissà se ricordo bene- "Cinema, frenetica passion".
Ricordo che una volta, a Roma, in un ottimo ristorante (oltre a te, a Franco Scarmiglia, a me e a diversi altri), incontrammo Corrado Gaipa. Lo hai mai conosciuto personalmente ?
Per ora basta così, alla prossima.
E ancora grazie e tanti complimenti.
Giulio Fedeli

Claudio G. Fava ha detto...

Ho ricevuto sulla mia mail dal mio amico professore Dino Cofrancesco il seguente commento:
"Carissimo Claudio,
davvero esemplare il tuo ricordo di Francesco Savio e del suo ambiente Preciso, equilibrato, commosso ma senza retorica: sei l’antitesi dell’intellettuale trombone di cui in Italia non ci libereremo mai.
Un abbraccio
Dino"

Giorgio ha detto...

Come sempre un ottimo articolo!
Saluti

Anonimo ha detto...

Davvero un pezzo interessantissimo e ben scritto.Grazie

Enrico ha detto...

Quanta cultura e quali tragedie nella famiglia Pavolini !

Andrea Napoli ha detto...

Colgo l'occasione di questo bellissimo pezzo per segnalare due importanti volumi di Francesco Savio. Entrambi non dovrebbero mancare in un'ideale biblioteca cinefila. Il primo è un testo fondamentale, dal quale molti di noi - in un'epoca in cui non esistevano le tv private, l'home video e Internet - hanno imparato a conoscere tanti film che hanno fatto la storia del cinema, e che allora erano assolutamente invisibili. Il volume s'intitola "Visione privata" (sottotitolo: "Il film occidentale da Lumière a Godard"), è stato pubblicato dall'editore Bulzoni nel 1972 e raccoglie vari saggi di Savio relativi alle sue visioni alla moviola di molti film europei e americani dal muto agli anni '40.
Il secondo è la raccolta postuma delle sue recensioni pubblicate sul settimanale "Il Mondo" tra il 1973 e il 1976. E' una raccolta curata da Franco Cordelli e Emidio Greco, pubblicata nel 2002 dall'editore Falsopiano, e comprendente anche una postfazione di Lorenzo Pellizzari ricca di notizie e informazioni sul mai abbastanza compianto autore. Entrambi consigliatissimi, per (ri)scoprire gli anni ormai lontani in cui la critica cinematografica aveva spesso il dono di aprire orizzonti straordinari...