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9 settembre 2013

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo ai tre commenti pubblicati sul Blog il 02/09/13. In realtà più che di risposte si tratta di commenti ai commenti. Ho apprezzato le osservazioni di Luigi Luca Borrelli e di Enrico sulle barbe. Borrelli in sostanza concorda con quello che ho scritto io, il che mi fa piacere. In quanto a Enrico confesso che le sue definizioni sui barbuti correnti mi hanno molto divertito. Il paragone fra Pirlo che, con la barba sembra detenuto nel castello d’If con Dantés e Faria (l’Abbé, che in francese significa sia Abate che Sacerdote: credo che noi dovremmo chiamarlo semplicemente “Don” e non “Abate”) mi ha molto divertito. Ringraziamenti e saluti a Rosellina.
Veniamo adesso ai commenti pubblicati il 30 agosto. Ringrazio Rosellina per le differenti osservazioni. In quanto al problema di Film TV rimando a quel che scrivo qui sotto. In effetti PuroNanoVergine ha ragione nello scrivere quel che scrive. Gli faccio presente che ritengo estremamente poco probabile che io riprenda a scrivere su Film Tv. Nel senso che non penso che il nuovo direttore voglia richiedermelo (debbo dire che la rubrica “Salvate la Tigre” era giunta oramai all’estenuazione, perché andavo esaurendo i miei ricordi Rai). E’ vero che i mutamenti di direzione in Film Tv rivelano sempre un sottofondo tempestoso (penso a Emanuela Martini ed a molti dei suoi collaboratori). Non so se è dovuto a difficili rapporti con la Proprietà (come si usa dire e scrivere nei giornali) od a caratteristiche “elettriche” delle singole persone, ma penso che l’ipotesi più ragionevole sia la prima (in effetti va detto che, negli ultimi tempi, dopo avermi fatto compilare delle fatture su cui ho pagato l’iva, non ho mai visto i soldi. Il che mi sembra una netta testimonianza di “disordine” amministrativo…).

Vengo adesso a Giulio Fedeli che ringrazio per l’affetto a me ed i complimenti a proposito di Jean Gabin. Per quel che riguarda il nucleo del suo intervento a proposito di Hélie Denoix de Saint- Marc (l’indirizzo è posto in rilievo in modo che può essere “cliccato”) credo di dover fare alcune precisazioni. Innanzitutto ad uso dei lettori di Clandestino in Galleria, che non è detto siano tutti competenti sulla recente storia militare francese. Denoix de Saint-Marc (11/02/1922-26/08/2013) è stato un tragico protagonista di molti anni della vita francese durante e dopo la guerra. Diciannovenne nel febbraio del 1941, dopo la “débâcle” assiste ad un esibizione delle truppe francesi a Bordeaux e decide di entrare nella giovanissima Resistenza. Entra in contatto con il “réseau” Jade-Amicol, che era organizzato e diretto non dai Servizi gollisti ma direttamente dagli inglesi dello Special Operations Executive (S.O.E.), attraverso il famoso colonnello Maurice Buckmaster. Il quale per questo motivo ebbe appunto spesso a scontrarsi con i francesi del Bureau Central de Renseignements et d’Action (B.C.R.A.), divisi fra gli ordini di De Gaulle di mantenere la Resistenza in mani francesi e la necessità di dover dipendere dagli inglesi per tutte le complesse necessità della vita clandestina (denaro, armi, lanci di paracadute e di paracadutisti, voli di aerei britannici da e per la Francia, eccetera). Venne catturato il 14 Luglio del 1943 alla frontiera spagnola e deportato prima a Buchenwald e poi a Langenstein-Zwieberge, dove la mortalità superava il 90% dei detenuti. Sopravvisse in modo miracoloso, sino ad essere uno dei trenta superstiti fra i prigionieri di un convoglio che ne contava inizialmente più di mille. Perse per un certo periodo la memoria e dimenticò persino il suo nome. Tuttavia nel 1945 era già in grado di arruolarsi fra i cadetti dell’antica scuola militare di Saint-Cyr, da poco ricostituita. Da quel momento inizia una terribile esperienza bellica in Indocina, ufficiale nel terzo REI (Terzo Reggimento di Fanteria della Legione Straniera). Vive con i partigiani vietnamiti, ne impara la lingua e dopo 18 mesi è costretto ad abbandonarli quando le truppe francesi si ritirano di fronte a quelle cinesi (è costretto ad abbandonare a colpire con il calcio del fucile le mani dei vietnamiti che si aggrappano disperatamente ai camion francesi per sfuggire la morte: non lo dimenticherà mai). Le sue esperienze belliche nel decennio successivo sono continue. In particolare egli comanda una compagnia di volontari vietnamiti come paracadutisti della Legione. Trasferito in Algeria porta con se la rabbia, il dolore e la frustrazione di tutta una generazione di ufficiali che, considerandosi “traditi” in Indocina non volevano essere anche nel nuovo teatro operazioni. Comandante ad “interim” del I° R.E.P. (Primo Reggimento Paracadutisti) della Legione nell’aprile del 1961 aderisce al cosiddetto “Putsch des Generaux”, quando quattro generali francesi (Raoul Salan, André Zeller, Maurice Challe, Edmond Jouhaud) si ribellano a Parigi cercando di conservare il dominio francese sull’Algeria. La rivolta fallisce, de Saint-Marc è fatto prigioniero e nel giugno, processato davanti ad un tribunale militare (spiegherà di non aver voluto abbandonare i volontari algerini filo-francesi, i cosiddetti “harkis”, come aveva fatto a suo tempo con i vietnamiti) ed è condannato a 10 anni di reclusione. Dopo cinque anni, nel 1966 verrà graziato. Da quel momento inizia a Lione una carriera di dirigente nell’industria metallurgica, nel 1978 è riabilitato nei suoi diritti civili e militari, nel 1995 pubblica un libro di memorie intitolato “Les champs de braises” e da quel momento diventerà un testimone ed un interlocutore in vari studi sulla Seconda Guerra Mondiale. A 89 anni, il Presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy riconosce i suoi meriti nominandolo “Grand Croix de la Légion d’Honneur”. Come si è detto muore circa 1 anno e mezzo dopo.
Ho tenuto qui a ripercorre abbastanza minutamente le tappe di una carriera sicuramente ignota ai più in Italia (e forse anche, seppure in misura minore, in Francia). L’ho fatto per rispetto cercando di capire i motivi del complicato cammino di Hélie de Saint-Marc. Vorrei però precisare che continuo a rimanere solidale delle difficili decisioni del Generale De Gaulle. Il quale seppe-pur bruscamente, brutalmente, in qualche caso ferocemente, troncare l’ormai insostenibile avventura algerina della Francia (dopo circa 130 anni di dominio). De Gaulle, che non era mai stato un ufficiale “coloniale” (distinzione che aveva la sua importanza nell’esercito francese dell’epoca) abbandonò praticamente i francesi d’Algeria ad un rimpatrio forzato, senza aiuti di sorta, in una nazione di cui i Pieds Noir conoscevano la lingua ma ignoravano tutto il resto (ancora peggiore fu la sorte dei partigiani Harkis, i quali erano “anche” arabi e, a volte, il francese lo conoscevano poco). Il comportamento di De Gaulle apparve ancor più crudele ai francesi di Algeria i quali, pochi anni prima, avevano contribuito in modo decisivo a riportarlo al potere. Ciò premesso ritengo che egli, pur con qualche inutile crudeltà, ancora una volta nel fondo abbia avuto ragione. Come è noto di fronte alla ribellione dei generali (i quali, dal canto loro, potevano rimproverargli di aver incominciato la sua carriera di uomo politico, nel 1940, con una ribellione ancor più esplicita) egli rispose coniando una frase rimasta celebre: “Un quarteron de generaux félons”. Dando prova, ancora una volta, del suo naturale gusto letterario per un articolato uso della lingua francese, credo ereditato dal padre, che fu un severo professore di liceo. Infatti la parola “quarteron” ha significati diversi. In senso stretto, indica il “quarto” ovvero il 25% di qualche sostanza o di oggetti che possono essere contati a centinaia. In senso più arcaico veniva usato, in una società razziale in cui queste cose avevano un’esplicita importanza, per indicare qualcuno nato dall’unione di un mulatto e di una bianca (o viceversa) oppure di qualcuno che avesse un nonno su quattro di origine africana oppure non africana. Infine, ed è in questo senso che lo impiega De Gaulle, può essere usato, con una connotazione peggiorativa, per indicare un gruppetto di persone. Qui esse sono appunto quattro (ho ricordato prima i nomi dei quattro generali) ed è per questo motivo che la definizione è rimasta celebre. Mi rendo perfettamente conto dei motivi che hanno guidato tanti giovani ufficiali, reduci dall’Indocina, i quali non volevano tradire i loro partigiani algerini come avevano fatto già con quelli indocinesi (la quale cosa accadde, e fu orribile). Ma la saggezza della decisione di De Gaulle (prese evidentemente con un certo disprezzo per la sorte dei “pieds noir”, i quali avevano contribuito in modo decisivo a riportarlo al potere) resta in tutta la sua interezza. Basta pensare a quel che è successo in Algeria in questi ultimi tempi e quali sarebbero state le conseguenze se, come volevano i rivoltosi, essa fosse rimasta un frammento di territorio francese.

Forse ho un po’ esagerato nella lunghezza con questa ultima risposta e chiedo scusa a tutti. 

2 commenti:

Giulio Fedeli ha detto...

Spero che Arrigo Petacco legga la risposta-minisaggio che hai avuto la bontà di dedicare -dietro mia sollecitazione- a Saint-Marc. Spero la legga, e ti riconosca suo pari, vale a dire uno storico di cristallina onestà intellettuale. Per parte mia, da challista a gaullista, non posso che ringraziare ammirato. Sono sicuro, del resto, che il Maggiore stesso avrebbe fatto la stessa cosa.
Una stretta di mano.
Giulio Fedeli

Gianni Dello Iacovo ha detto...

Buona sera,
Spero che fra tante domande serie non le dispiaccia riceverne una leggera.
Nel film “La grande fuga” i prigionieri, per smaltire la terra prodotta nello scavo della galleria da usare per la fuga, mi sembra usino un espediente (la camminata durante l'ora d'aria) già usato dai prigionieri de “la grande illusione”. Secondo lei, i prigionieri de ”La grande fuga” avevano visto il film di Renoir (o lo avevano visto i suoi sceneggiatori)?