Caro Renato,
purtroppo rispondo con ritardo alla sua lettera pubblicata a commento del mio post “A domanda risponde” del 17 febbraio. Francamente non me ne ero accorto (non so come mai, visto anche che è considerevolmente lunga). Per fortuna è stato Lorenzo Doretti a farmi rilevare il mio errore ed ora cerco di riparare alla dimenticanza.
Lei mi chiede “quanto è sottile la linea di demarcazione che separa il noir italiano di ambientazione metropolitana dalle storie di vita del nostro Paese…Ambientate tra gli anni del dopoguerra e quelli del boom economico?”. È una domanda al tempo stesso invogliante e molto complessa, a cominciar dal fatto che parlare di “un noir italiano di ambientazione metropolitana” è già una presa di posizione. Visto che il primo noir in senso stretto è stato un appassionante frammento di cinema americano fra guerra e dopo guerra nella valutazione della critica francese. Un ulteriore frammento della sua domanda riguarda il rapporto (potenziale) fra i film pasoliniani di concitazione periferico-proletaria (“Accattone” e “Mamma Roma”) e “Una vita violenta” (tratto da un romanzo di P.P. Pasolini) e, ancora, il rapporto fra il “noir metropolitano italiano di chiara derivazione francese” e i film prima citati.
Anche qui bisognerebbe arrivare ad una (sperabile) unificazione del vocabolario. Come ricordavo prima furono alcuni critici francesi a usare un espressione totalmente francese per indicare un fenomeno totalmente americano (uno degli “inventori” fu un curioso poeta svizzero residente in Francia ma totalmente formato in Italia, ed addirittura nato a Barletta: Nino Frank, personaggio minore ma straordinario). Parlare di “noir italiano” significa procedere ad un enorme allargamento del significato originario, e, anzi, dire che il “noir metropolitano italiano” è di derivazione francese, significa procedere anche qui ad una sorta di “annessione” culturale non so quanto giustificata. Il “noir” francese è un prodotto composito, che tende a sparire ed a riapparire, generazione per generazione e in cui si mescolano non solo un certo gusto dell’ambiente e della società (spesso in chiave apertamente metropolitana e, quando possibile, parigina) ma anche un’evocazione “etnica” spesso estremamente caratteristica. A volte ci si imbatte in alcuni tipici risvolti: la venatura della malavita corsa oppure di quella araba consentono caratteristiche invenzioni del genere e di genere, e via variando.
Infine la citazione di Fernando Di Leo implica una sorta di mia potenziale colpevolezza. Non so perché ho sempre trascurato il suo cinema, forse considerandolo una specie fragorosamente balistica di quella variazione poliziesca italiana che il sottilissimo critico Giovanni Buttafava aveva giustamente battezzato “il poliziottesco”. A indicare cioè un filone di cui avevo colto sin dall’inizio il carattere apertamente apprensivo, tipico della società italiana dell’epoca costretta a risvegliarsi bruscamente di fronte a fenomeni fino a quel momento impensabili. Rapine clamorose, sparatorie, potenziali colpevolezze nel seno della polizia, eccetera, bruscamente introdotte nel panorama del nostro cinema da un film del 1972 “La polizia ringrazia” di Stefano Vanzina ovvero Steno, padre dei due fratelli. Ma anche un genere che con l’andar del tempo avevo considerato fin troppo ovvio, e al più una manifestazione di produttiva furbizia nostrana, così da poter andare in giro per l’Italia riproponendo sempre lo stesso meccanismo città per città.
Mi accorgo di avere sin qui parafrasato le sue domande probabilmente senza fornire attendibili risposte. Ma vorrei prima consultare il mio amico Renato Venturelli (ho già avuto occasione di scrivere che lo considero il massimo esperto italiano di noir).
Intanto la ringrazio per le sue manifestazioni di stima e di affetto che probabilmente sono un po’ esagerate: in casi del genere si scrive sempre, pudicamente, “non le merito assolutamente” (ma come ha potuto conoscere le mie manifestazioni di entusiasmo per Jean-Pierre Melville? In genere sono contenute in scritti di molti anni fa e in un ciclo televisivo portato a termine non so quanti anni prima della sua nascita).
Tornerò sull’argomento. Se lei mi fornirà la sua e-mail provvederò ad includerla nell’elenco “privilegiato”, vale a dire composto da persone a cui invio un breve avvertimento ogni qualvolta apporto un nuovo contributo al Blog.
Intanto molti cordiali saluti.
8 commenti:
Da "appassionato non competente" se penso al "polar" mi ricordo di getto "Grisbi","Rififi",Lo spione","Frank Costello faccia d'angelo" (ma molto meglio il titolo "Le samurai"),"L'ultima missione" "I senza nome". Mi sembrano tutti film notturni o perlomeno bui,molto lontano dagli abbaglianti e fracassoni (ma con non piccoli meriti) poliziotteschi italiani anni 70. Personalmente trovo contatti fra il polar francese e film come "Banditi a Milano" e "Svegliati e uccidi". E soprattutto con i libri del bravissimo Scerbanenco ("Il Centodeliti" in una sgualcita copia dei Gialli Garzanti,soprattutto).Mi sembra che i Francesi abbiano anche dedicato più film all'ambiente carcerario ("Il buco","Il profeta") fra gli italiani ,di getto "Nella città l'inferno" e "Detenuto in attesa di giudizio".
La domanda di Rosati (che a quanto pare mi toglie l' alloro di "giovane del blog " ) era molto interessante e mi fa piacere che si possa discuterne.
Con Di Leo e Melville sento di poter giocare in casa perché ho amato e conosciuto entrambi, seppur in maniera totalmente differente. In interviste contenute nei DVD di RaroVideo dei film di Di Leo, lo stesso regista parlava spesso di Jean Pierre Melville, specificando di esserne palesemente inferiore, ma ammettendo di aver subito la fascinazione (come potrebbe non esserlo?). Il nesso tra i due registi a mio avviso è da ritrovare nel romanticismo con cui entrambi fanno muovere i loro personaggi, rendendoli "samurai" dei tempi contemporanei, uomini estranei alle leggi di Stato ma in qualche modo incapaci di divincolarsi da un modus vivendi che concerne un codice d' onore e una strenua eleganza propria, o quantomeno "una maniera". In entrambi i registi inoltre emerge costantemente una situazione di scontro tra un soggetto, legato ad una invincibile solitudine, e un sistema che tenta di annichilirlo ( il protagonista è braccato dalla malavita e dalla polizia contemporaneamente, e gioca una partita che non potrà che concludersi con una morte annunciata che non ne intacca però il virtuosismo).
Tra i due vi è però un solco stilistico esagerato. Melville sta a Platini come Di Leo a Furino. Dove il primo tace facendo parlare lo splendore e la purezza della rarefazione di un' immagine notturna e impressionista, l' altro utilizza dialoghi in eccesso e violenze manifeste.
Rivolgendomi direttamente Claudio G. Fava : non sottovaluti le "capacità" (nulla di trascendentale) e le attitudini di noi ventenni di vagare per la rete: cercando materiale e recensioni di Melville sul web non è difficile imbattersi nel Suo nome; come già detto, io la conobbi per le recensioni dei film di Melville nel Morandini, dove Lei è citato. Ma ad esempio la sua intervista facilmente rintracciabile su youtube "Jean Pierre Melville. Le Cercle Rouge e Dintorni " credo sia un punto di riferimento per tutti gli appassionati del genere. Il suo è un nome piuttosto presente nella rete e i buoni cinefili (che non sono quelli del filmetto in compagnia per passare la serata) sanno riconoscere con prontezza il suo apporto nella storia della critica cinematografica anche se per questioni anagrafiche si sono inseriti nel contesto solo da pochi anni.
Inoltre la ringrazio per le passate risposte, l' una nella quale poi fu inserita la domanda di Renato Rosati, l' altra per la citazione su Morandini, Mereghetti e Farinotti.
Buongiorno Maestro,
volevo intanto ringraziarla per la sua attenzione e per la risposta già molto chiarificatrice e interessante ai miei quesiti. Non si preoccupi assolutamente per il minimo "ritardo" di cui si parlava prima... So che il blog è molto seguito, che le domande e le novità che lei introduce sono molteplici e che, di conseguenza, c'è tanto lavoro.
Riguardo alla mia conoscenza circa il cinema di Melville, come le dicevo, devo molto a lei e al suo contributo. Purtroppo oggigiorno il materiale su questi grandi registi e sul cinema francese è andato, a mio modesto parere, diradandosi... E', infatti, tramite alcune interviste presenti su youtube che citava giustamente anche Luigi Luca Borrelli, e grazie anche ai racconti dei miei genitori, che ho avuto l'opportunità di appassionarmi molto a questo genere di cinema e di ampliare i miei orizzonti a livello cinematografico. Purtroppo, ovviamente, mancano molto i suoi testi e le sue rubriche (so infatti che il doppiaggio di molto film, come ad esempio "Bob il giocatore" e "Il silenzio del mare" si deve a lei).
Ringraziandola ancora per la sua attenzione, la saluto cordialmente, insieme a tutti gli altri lettori.
La mia email è la seguente.
renato.rosati.900@virgilio.it
Purtroppo non la uso molto, ma pur sempre un piacere seguire il suo blog.
Seguo con piacere immenso gli scambi di opinione intorno a Melville che il blog ospita da un po' di tempo in qua. Buon ultimo, è ora giunto il liceale (mi pare) Renato Rosati, che afferma doversi ascrivere a Claudio G. Fava la sua scoperta e conoscenza del grande regista francese. Pensino allora i clandestini: anch'io - nato nell'anno di "Labbra proibite", vale a dire due generazioni prima di Rosati -devo a Claudio G. Fava la scoperta e conoscenza di Melville (Rui Nogueira è venuto dopo). Per cui: sono ben grandi, e di lunghissimo corso, i meriti in proposito del nostro CGF. Cui va il mio (posso dire il nostro?) commosso "grazie". Melvilliani un giorno della nostra gioventù, melvilliani tutta la vita.
Un paio di piccole noterelle, a uso dell'entusiasta neofita Rosati. Non è proprio vero che non si scriva più di Melville. E' di pochi anni fa (2007) la pubblicazione di un eccellente volume di Denitza Bantcheva ricco (278 pagine), originale e articolato sul nostro regista di culto. Che è sepolto nel cimitero parigino di Pantin.
Nel 2010 è uscito anche un ottimo studio di Barbara Laborde e Julien Servois intitolato "Analyse d'une oeuvre: Le cercle rouge" (142 pagine).
Ancora un ringraziamento a Claudio (avresti mai detto allora, quando "portasti" Melville in Italia, che sarebbe finita così bene?), un invito all'ottimo Luigi Luca Borrelli affinché scriva più spesso, un complimento all'acume di Enrico, un saluto melvilliano a tutti.
Volevo segnalarle che questa sera, ospite di Che Tempo Che fa, Paolo Sorrentino l'ha citata per la programmazione delle rassegne di film in televisione (auspicando che la tv italiana abbia di nuovo "il coraggio" che aveva lei nel proporre film d'autore).
E' bello leggere come la tua Maestria viene riconosciuta, non solo da noi che ti abbiamo seguito ed ammirato in questi anni,ma anche dai ventenni! Non so se se ti è stato già detto ,ma sei stato citato, domenica scorsa, dal premio Oscar Paolo Sorrentino nella trasmissione di Fabio Fazio su Rai3 " Che tempo che fa".Cito a memoria quello che ha detto.... "Claudio G. Fava era una specie di idolo per me ...sapeva creare l'aspettativa intorno al film che si stava per vedere....." Ha ragione! ed è per questo che vedo sempre con grande piacere le tue introduzioni ai film su Class TV, mi auguro che riprendano presto.
Mi piacerebbe molto sentire il tuo parere di critico cinematografico sul film " La grande bellezza".
Grazie
Ringrazio Giulio Fedeli. Leggo quasi tutti gli articoli e le annesse risposte; mi sembra di intervenire con buona frequenza, ma tendo a non farlo sempre per non scrivere banalità quando conosco poco un argomento oppure in linea di massima non ho questioni da sollevare.
Saluto tutti
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