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29 settembre 2008

Servillo tra il Bagaglino e la tragedia

L’impresa a cui si è accinto Paolo Sorrentino dirigendo “Il Divo” – suo sesto lungometraggio dopo “L’amore non ha confini”, “L’uomo in più”, “La lunga notte”, “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia” – è estremamente ricca di difficoltà. Com’è noto, “Il Divo” è un ritratto di Giulio Andreotti che oscilla fra le asperità e i riferimenti alla cronaca quotidiana propri di un “pamphlet”, e le intenzioni più accavallate e tortuose legate alla presenza stessa di un protagonista come Toni Servillo. Ovviamente bravissimo e pur tuttavia servo di due tirannici padroni, Servillo a momenti è una parodia da “super-Bagaglino” e al momento dopo diventa un simbolo complicato, il ritratto di un’Italia complessa e corrotta, dove il “Presidente” si inoltra, così come nelle deserte strade di Roma notturna, circondato da guardie del corpo armate sino ai denti. La straordinaria avventura personale di Andreotti diventa il pretesto per un disegno di una società politica dove da un lato campeggiano i Salvo Lima, Cirino Pomicino, gli Sbardella, i Ciarrapico, i Mino Pecorelli, gli Aldo Moro, i Franco Evangelisti, i Vincenzo Scotti, eccetera, mentre dall’altro, solo indirettamente, è evocato il meccanismo di fondo dell’attività di Andreotti politico per eccellenza. Per inerzia e comodità si è tutti portati a dimenticare che l’intera sua carriera è in qualche modo rapportabile all’ombra del Vaticano, che si staglia e si proietta sulle mere coincidenze romanesche, laziali e mediterranee di cui si nutre la quotidianità del politico. In realtà, quel che vien fuori dalla lettera del film è l’eccellenza di un cammino umano in qualche modo misteriosamente parallelo a quella vocazione biografica a muoversi entro i confini di un’esperienza solo geograficamente italiana, ma che si nutre dei succhi di un mondo d’oltre Tevere, in cui tutta la vita e l’attività politica di Andreotti trovano alimento, motivazione e giustificazione ideologica. A pensarci verrebbe fatto di immaginare quale straordinario Segretario di Stato – altro che i Merry Del Val, i Gasbarri, di cui solitamente ci vengono tessute le lodi – avrebbe potuto essere se avesse scelto, come tanti suoi amici, la veste talare invece di innamorarsi di una ragazza, conosciuta al Verano durante un funerale, di sposarla e di averne diversi figli (la moglie è impersonata da Anna Bonaiuto, che riesce a dare al personaggio una lavorata finezza ed una notevole complessità di testimonianza).
Credo che si avverta nelle mie parole la difficoltà di penetrare nel corpo segreto di un film. Che in parte oscilla fra rievocazioni di tempi, di luoghi e di persone con risvolti di aperta o indiretta polemica. Ma che in parte risente anche del desiderio di dare al personaggio centrale una sua complicata collocazione ideologica, quasi un simbolo dei servaggi e delle servitù che vanno immolati quotidianamente nell’esercizio della politica spicciola. Si capisce che il regista è consapevole del fatto che da un lato è strascinato sul terreno scottante della polemica politica di casa nostra (si veda il dialogo fra Giulio Bosetti con barba d’ordinanza che interpreta Eugenio Scalfari e che rimprovera ad Andreotti non so quante colpe e quante compromissioni), ma che d’altro lato si apre intorno al “Presidente” un enorme terreno di politica e di ideologia all’ombra del quale si è dipanata buona parte della vita pubblica italiana, dal dopoguerra ad oggi.
C’è nel film, nella finezza della struttura visuale sapientemente tessuta da Luca Bigazzi, la continua provocazione, la consapevolezza dolorosa di trovarsi sul confine di una grande scoperta – quella dell’urgenza di una pacificazione nazionale e di una missione internazionale dell’Italia - che il regista ha sfiorato mille volte, senza riuscire tuttavia a varcarlo completamente. Tanto è affascinante l’idea che muove il film, tanto è a momenti deludente il risvolto narrativo della realizzazione. Ma è certo che si tratta di un’opera di un insolito rilievo politologico, a cui il nostro cinema non ci ha abituato e che può ritrovare motivazioni e giustificazioni in alcune opere ormai lontane di Francesco Rosi.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 72 del 2 Luglio 2008)

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