Io non incontro Ermanno da molti anni e negli ultimi decenni ci siamo visti poco, ma è anche vero che ci siamo conosciuti, e diventammo amici, tanti anni fa. C’era in lui un sorridente attivismo lombardo che ribadiva un rapporto con il cinema profondo e istintivo, frutto non tanto di letture ma di un operoso rapporto da filodrammatico con le scene, e con le immagini di cinema da auto-formatosi e talentuoso operatore. Tutti i numerosi documentari aziendali girati per la Montedison, una quarantina fino al 1961, testimoniano di un naturale istinto cinematografico che trova la sua consacrazione in un lungometraggio a soggetto, “Il tempo si è fermato” (1960). Un documentario simulato, il quale in realtà contiene delle tenere e godibili invenzioni di “fiction” a testimonianza del naturale tocco narrativo di Olmi, che non deve niente a nessuno.
Io ho conosciuto Ermanno ancor prima che girasse “Il posto”, quando era in certo senso un conosciuto sconosciuto, e diventammo amici (da qualche parte in casa devo ancora avere una fotografia che ci hanno fatto a S. Margherita Ligure in occasione del Festival del Cinema Latino-Americano: indossiamo entrambi un improbabile abito da sera e malgrado il sorriso festoso sembriamo due “extra” assunti all’ultimo momento da un’impresa di catering). Da allora ho seguito con grande affetto, da lontano, la carriera di Ermanno, il quale è riuscito ad avviare una sua vita professionale autonoma (prima a Milano, poi ad Asiago) senza l’inevitabile trasferimento a Roma, che è uno dei pochi cineasti italiani ad esser riuscito ad evitare (l’altro è Maurizio Nichetti, rimasto ostinatamente milanese). Si può dire che tutti i film di Olmi, in quasi mezzo secolo, testimoniano di un’ostinazione solitaria e narrativamente fruttuosa fuori delle convenzioni para-romanesche del cinema italiano post-bellico. Opere come “Un certo giorno” (1969), il primo film a mia memoria ambientato nel mondo dei pubblicitari milanesi, “Durante l’estate” (1971), curiosamente ambientato in un universo di ricerche araldiche, oppure il clamoroso “L’albero degli zoccoli”, che Olmi riuscì a girare in presa diretta in un arcaico dialetto bergamasco, dando vita ad un capolavoro di poetica ricostruzione del passato. Son passati quasi quarant’anni e Ermanno ci ha abituato a inaspettati colpi di reni. Ad esempio, per indicare un film recente, a un’opera come “Il mestiere delle armi”, straordinario recupero degli ultimi giorni della vita di Giovanni delle Bande Nere (2001); oppure a “Cantando dietro i paraventi” (2003), paradossale re-invenzione di una Cina del XVII° sec.; per non far cenno del più recente “Centochiodi” (2007), dove riusciva ad evocare una crisi personale ed una crisi religiosa a testimonianza di una perenne vitalità narrativa. Una filmografia ampia e straordinaria, per la quale il riconoscimento di Venezia è solo un omaggio tardivo.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 78 del 3 Settembre 2008)
4 commenti:
quello che stavo cercando, grazie
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necessita di verificare:)
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