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25 luglio 2011

RISPOSTE E CONSIDERAZIONI VARIE MA NON EVENTUALI: FESTIVAL DEL DOPPIAGGIO, SERIALI TELEVISIVI, EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA E INDRO MONTANELLI

Approfitto intanto di questo attimo di pausa per promettere a tutti che, oltre che rispondere agli ultimi commenti pervenuti sul Blog, ritornerò al più presto, vista che la cosa mi viene richiesta, sul problema del doppiaggio e le infinite complicazioni ad esso connesse. Vedrò di inserire nel dialogo Bruno Astori che è l’inventore e l’organizzatore, da 14 anni, del Festival del Doppiaggio “Voci nell’ombra”di cui sono, come ho già scritto impudicamente, il direttore artistico. Se qualcuno è interessato ad occuparsi dell'argomento gli segnalo intanto un sito, assolutamente straordinario, inventato e curato da Antonio Genna, un siciliano che vive a Pisa, e che, credo cominciando senza aiuti di sorta, ha impiantato uno schedario incredibilmente completo nel quale registra i doppiatori, i programmi da essi doppiati, le specializzazioni per singoli attori a cui è stata data la voce italiana, eccetera. Genna (non so come faccia) riesce ad aggiornarlo cammin facendo, per cui via via che appare un programma al cinema in TV, lui è in grado di fornire tutti i dati riguardanti il doppiaggio di quello stesso programma. Un'opera di schedatura che mi pare straordinaria. Ricopio qui i dati esatti che riguardano il sito: www.antoniogenna.net
Veniamo a noi. Mi occupo di nuovo di programmi televisivi. Dopo l'"Ispettore Barnaby", vorrei dedicare un po' di spazio a due seriali americani: "Law & Order" e il bizzarro "Numbers", che purtroppo negli Stati Uniti è terminato da poco e che è prodotto dagli ingegnosi fratelli Scott, inglesi di nascita. Uno è Ridley (nato nel 1937), quello de " I duellanti", "Blade Runner", "Thelma & Luise" ,"Soldato Jane", "Il Gladiatore", "American Gangster", eccetera. L'altro è Tony (1944), quello di "Top Gun", "Allarme rosso", "Spy Game", "Domino", eccetera. Basato su una complessa ipotesi matematica (che sembra essere verosimile e attendibile) il seriale ha un intonazione tecnologica sofisticata e purtroppo è già terminato negli Stati Uniti, seppure da poco. Infatti la CBS lo ha cancellato dai programmi il 18 maggio 2010, quando ormai aveva raggiunto il 6° anno consecutivo. In quanto a "Law & Order" dura da circa 20 anni ed è uno dei più longevi seriali polizieschi americani. Riparleremo dell'uno e dell'altro.
Volevo approfittare di questo breve intervallo discorsivo per fare cenno di due notizie recentissime apparse in questi ultimi giorni nei quotidiani l'una riguarda Emanuele Filiberto di Savoia che (vedi il Secolo XIX di giovedì 21 luglio) ha presentato a "Pontremoli Summer nights" il romanzo "Mi fai stare bene" edito da Rizzoli e firmato solo con i nomi propri e senza l’altisonante cognome. Confesso che Emanuele Filiberto mi reca un certo imbarazzo. Non riesco a capire, al di là del fatto che ha modi garbati, che specie di educazione abbia ricevuto, ammesso che il padre e la madre siano in grado di educare qualcuno. Da quando è venuto in Italia il suo italiano, che era già molto corretto per uno nato e cresciuto all’estero, è indubbiamente migliorato. Ma ciò che non è migliorato è il tono dell’immagine che egli intende e riesce a dare di se. Ha completamente rinunciato, sembra di capire, ad essere il figlio di un teorico pretendente al trono? Ma in caso affermativo che cosa vuol fare e chi è veramente ? Non vi è dubbio che utilizza il pur deteriorato nome della Ditta di famiglia (pur omettendolo sulla copertina del libro) per farsi notare e per proporsi all’attenzione della gente in tutti i modi immaginabili: si è proposto come candidato politico, se ricordo bene alle elezioni europee. Si è esibito sul palcoscenico di Sanremo, è andato all’Isola dei Famosi, se ricordo bene in passato ha fatto anche il commentatore sportivo a favore della Juventus. Adesso ha pubblicato un romanzo, che francamente non ho intenzione di comprare e di leggere, ma che testimonia ancora una volta della sua incessante intenzione di mutarsi per apparire. Evidentemente è libero di fare quello che vuole, e non vorrei che le mie parole potessero suonare offensive o spregiative. Tuttavia confesso che quando lo vedo o sento parlare o scrivere di lui provo un senso di tristezza e di imbarazzo. Penso a suo nonno, Umberto II, le cui immagini sono facilmente controllabili in internet (ad esempio c’è un intervista con lui del mio amico Nicola Caracciolo oppure la cronaca visuale con migliaia di italiani commossi in un ampio giardino di Beaulieu, in Francia. E basta pigiare sui tasti per trovare probabilmente molte altre immagini di Umberto). Il quale non fu certo esente da errori, pagando duramente come Principe di Piemonte, la sua eccessiva acquiescenza al volere del padre Vittorio Emanuele III che ribadiva sempre: “I Savoia regnano uno alla volta” . Pur essendo non incolto e non impreparato egli pagò un duro prezzo alla compromissione famigliare con il fascismo e, a quel che si dice, alle tonalità particolari della sua vita privata su cui sembra che Mussolini avesse un ampio incartamento. Ma tuttavia resta il fatto che dopo le elezioni del 2 giugno 1946 si allontanò dall’Italia con molta eleganza e la stessa eleganza dimostrò nei 37 anni successivi, prima della morte (se ricordo bene lo colse in un letto di ospedale alla sola presenza di un infermiera). Io ho visto da vicino la fedeltà e l’entusiasmo di tanti monarchici, giovani e meno giovani, nei mesi convulsi che precedettero il referendum istituzionale del 1946. Lo dico con la lucidità con cui rivedo il mio passato, quando, nella mia classe di liceo al “Vittorino da Feltre” (Istituto scolastico dei Padri Barnabiti, ora scomparso, tipico di una certa Genova, ci aveva studiato anche Montale) scopersi di essere l’unico repubblicano. Tutti i miei compagni di classe, almeno una ventina, erano apertamente o tacitamente monarchici. E almeno due di essi facevano aperta propaganda e tenevano comizi o incollavano manifesti. Scrivo questo per restituire il clima di un epoca, che era vivo anche in una città tendenzialmente rossa e storicamente poco savoiarda come Genova (una volta, in pieno fascismo, parlando di una visita genovese di Vittorio Emanuele III, Mussolini disse: “l’altro giorno, pur di farmi dispetto, hanno applaudito perfino il Re”). Nella primavera del 1946 Umberto di Savoia fece molte apparizioni in diverse città italiane. Visite che spesso erano salutate da manifestazioni di favore dei monarchici ma ancor più di appassionate dimostrazioni contrarie dei repubblicani. In occasione di una sua visita a Genova uno di quei due compagni di classe di cui parlavo prima andò a rendergli omaggio nel palazzo dove ancora oggi ha sede la prefettura, praticamente in piazza Corvetto. Riuscì a parlargli e gli disse: “Sono un desperado di Vostra Maestà” E Umberto scrisse con la sua calligrafia ordinata su un biglietto: “A un mio desperado”. E lo firmò. (Si badi: Umberto conosceva molte lingue e sicuramente sapeva che la parola “desperado” è un errore italiano e francese. Infatti in spagnolo “disperato” si dice “desesperado”. Ma venne incontro all’errore di quel suo fedele). Molti anni dopo seppi che un mio amico, armato dell’asta di una bandiera, aveva partecipato ad una carica contro la prefettura per protestare contro la visita di Umberto. Il mio amico era Enzo Tortora.
A quei momenti difficili fecero seguito, per motivi che posso immaginare su cui non ho dati sicuri, decenni di incomprensione famigliare. Con Umberto che viveva a Cascais, in Portogallo, e la moglie Marie José, via via con le figlie ed il figlio Vittorio Emanuele, che vivevano a Ginevra. Una lunga separazione che non mi pare abbia fatto bene a nessuno dei due, visto che da un lato alimentò le malignità sulla presunta omosessualità di Umberto, e che dall’altro vide la pure intelligente e sensibile Marie José occuparsi molto di storia, dedicando diversi libri a dei Savoia scomparsi nei secoli e, a giudicare dai risultati,consacrare molto meno tempo all’educazione dei Savoia vivi.
Insomma una ribadita apparizione di Emanuele Filiberto, destinata a stupire molti dei fedeli di Umberto di un tempo, e perfino me che fedele non sono mai stato ma che ho sempre conservato molto rispetto per suo nonno. Penso sempre al suo perenne sorriso, faticosamente ostentato e stereotipato, di quando sale sull’aereo che lascia l’Italia nel giugno del 1946; sorriso consegnatoci da un breve ma toccante frammento di cinegiornale dell’epoca (sia detto incidentalmente, per una curiosa combinazione, l’aereo venne pilotato dal fratello maggiore di Carlo Lizzani.) E’ curioso rilevare che la decisiva apparizione italiana di Emanuele Filiberto- egli vive nel nostro paese mentre la moglie e i due bambini vivono a Parigi – è contrassegnata da una dichiarata spaccatura all’interno dei superstiti sostenitori dei Savoia. Una parte è rimasta fedele a suo padre Vittorio Emanuele, mentre un’altra parte, capitanata da Sergio Boschiero fedelissimo di Umberto, ha optato, in base ad una pronuncia dell’associazione fondata in ricordo del Senato Regio, per i cugini Savoia-Aosta. E’ curioso rilevare come sovente queste spaccature avvengano fra i sostenitori di famiglie reali che hanno perso il trono da tempo. E’ accaduto in Francia con i sostenitori del ramo Orleans dei Borboni discendenti da Luigi Filippo, rappresentato dal conte di Parigi e dai suoi figli, e con i sostenitori dell’altro ramo che discende direttamente da Luigi XV. E’ accaduto in Brasile con un’aperta controversia tra due rami degli Orleans-Braganza e perfino, un’altra volta in Italia, dove i discendenti dell’ultimo Re delle due Sicilie, Borbone di Napoli, sono divisi in due rami, uno che vive in Spagna, riconosciuto dall’attuale re Juan Carlos e l’altro incarnato dal Duca di Noto che vive in Italia. Anche in questo si respira un sapore malinconico che, però, attinge a stimoli secolari molto più antichi dell’isola dei famosi.

L'altra notizia (vedi Corriere della Sera di venerdì 22 luglio), a firma di Antonio Carioti concerne una manifestazione (intitolata "Musiche nel giardino dei ciliegi") nel decimo anniversario della morte di Indro Montanelli. Il tutto avviene nel suo paese natale, Fucecchio, a cura della Fondazione Montanelli-Bassi, e all'interno di una serie di manifestazioni e celebrazioni che in questi anni hanno riguardato lo scrittore. A testimonianza di un interesse tenuto vivo dalla passione e dal ricordo di migliaia di suoi lettori. Rimando all'articolo per approfondire il tema e la figura di Montanelli, nei confronti del quale e della sua mirabile capacità di sintesi giornalistica, intessuta di sapiente semplicità toscana, io ho sempre provato grande ammirazione. Confesso tuttavia che vorrei sapere qualche cosa di più sul suo periodo giovanile di totale devozione al fascismo. Di cui lo stesso Montanelli ha fatto cenno, specificando una volta che era lieto di aver scritto certe testimonianze fasciste tipiche dei suoi anni perché se no le avrebbe scritte dopo. In certe note prese in funzione di una mia ricerca sullo spionaggio (a cui accudisco da qualche tempo e di cui non intendo far cenno sino a quando non l’avrò terminata) ho rinvenuto tracce precise riguardanti Indro Montanelli venticinquenne che andò a Parigi per collaborare all'"Italie Nouvelle - Nuova Italia", giornale fascista scritto in francese e in italiano (era stato fondato negli anni ‘20 redatto, completamente in francese; fra i primi collaboratori vi fu Giuseppe Ungaretti e il direttore dell’epoca, Nicola Bonservizi, venne ucciso in Francia da un anarchico italiano). Il direttore degli anni ‘30, colà inviato da Ciano e da Bocchini, Italo Sulliotti (che ho conosciuto bene perchè a Genova è stato mio direttore a "La Gazzetta del Lunedì"), ne fece cenno diverse volte. Ad esempio ne parla Mauro Canali in "Le spie del regime" (Il Mulino, Bologna, 2004). In una nota rivolta appunto al senatore Bocchini (potentissimo capo della polizia e dell'OVRA) Sulliotti inizialmente cita la "schietta anima fascista del Dott. Indro Montanelli”. Successivamente, però, è costretto a scrivere una lettera al Ministero degli Esteri in cui riteneva pericoloso "per se e per il ruolo di cauto propagandista del fascismo che egli andava svolgendo”, il comportamento di Montanelli orientato a far circolare in Francia L'Universale di Berto Ricci e , soprattutto, a ospitarne gli scritti sulla “Nuova Italia". Come è noto Berto Ricci fu un anarchico convertito al fascismo e fece parte di quel folto gruppo di intellettuali, fra cui Guido Pallotta e Niccolò Giani, che dettero vita alla cosiddetta "Scuola di Mistica fascista". Fra tanti gerarchi cinici e fra i numerosi allievi di una scuola dal nome grottescamente religioso, Ricci, Pallotta e Giani le cose le prendevano sul serio e, a testimonianza del loro impegno, una volta dichiarata la guerra andarono volontari in guerra e vi morirono tutti, uno sul fronte greco-albanese e gli altri due in Libia, fra il 1940 e il 1941. In particolare nei confronti di Berto Ricci Montanelli non ha mai rinnegato una certa sua ammirazione. Non è un caso che, al tempo del suo impegno fascista, sia stato lui a farlo ricevere da Mussolini a Palazzo Venezia e Mussolini ne fece un collaboratore del “Popolo d’Italia”. Ripeto non c’è niente di polemico in quel che scrivo ma solo un desiderio di chiarire meglio quel momento di “emballment” fascista del giovane Montanelli, che lo portò ad andare volontario per la guerra di Etiopia da cui nacque poi “XX° battaglione eritreo”, il suo primo libro che lo fece notare. E che gli permise di seguire come inviato speciale la guerra civile di Spagna, dove cominciò ad affiorare nel suo animo una crisi di sfiducia nel fascismo, che lo portò poi addirittura ad essere escluso dal Partito. E’anche vero che, protetto da Bottai, e difeso da un direttore molto fascista ma anche molto coraggioso come Aldo Borelli, egli, dopo una parentesi universitaria a Tallin, poté poi approdare al Corriere della Sera distinguendosi via via come uno dei migliori inviati speciali del giornalismo italiano di tutti i tempi. La sua rimane una fondamentale testimonianza di un anarchico conservatore e nella già citata pagina del Corriere della Sera sono stati riprodotte molte delle sue fulminanti definizioni. Mi permetto di riprodurne qualcuna qui, a testimonianza di un talento straordinario di paradossale testimone del suo tempo e di molti altri tempi, che condivideva con pochi altri intellettuali, fra cui paradossalmente due anche essi ricchi di trascorsi fascisti, durati molto di più di quelli di Montanelli: Mino Maccari e Leo Longanesi. Ecco dunque qualche paradosso di Montanelli: “Leo Longanesi trascorre la sua vita ad aver torto oggi per il gusto di avere avuto ragione domani” (1952). “Curzio Malaparte, morendo, ha avuto ragione. Non era fatto per invecchiare, e la dentiera gli sarebbe stata malissimo” (1959). “Pertini rimarrà indelebile nella nostra memoria e nel nostro cuore come il Presidente che ha incarnato al meglio il peggio degli italiani” (1985). “Dell’Italia non mi piace quasi niente. Ma quel poco che sono, sento di esserlo come italiano; e, se non fossi italiano, non sarei più nulla”(1997). “Certo che potremmo fare la rivoluzione Thatcheriana in Italia. Ci vorrebbero solo due cose: una Thatcher e dietro di essa l’Inghilterra” (1998). “Da quando siamo nati come nazione, il nostro atteggiamento è stato sempre lo stesso: quello di nemici dell’amico e di amici del nemico” (1999).
Io mi fermo qui anche se l’antologia potrebbe proseguire all’infinito.

1 commento:

Gianni Dello Iacovo ha detto...

Buon giorno.
Quando si parla di doppiaggio vengono citati solo i doppiatori, non si parla mai dell'abilità (più o meno grande) dei traduttori.
Io non conosco così bene le lingue straniere da poter fare critiche dettagliate però le propongo due piccoli chicche:
In Frankenstein junior è stata tradotta bene la scena in cui i protagonisti sentendo degli ululati fanno quel famoso dialogo che termina con “lupo ululà castello ululì” (nell'originale giocavano tra “werewolves” licantropi e “were wolves?” dove sono i lupi);
In un film francese invece (mi sembra Bon vojage) nei titoli di testa veniva tradotto scenario con scenografia.
Cordiali saluti.
Gianni Dello Iacovo