Blog - Crediti


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30 settembre 2013

UN RITRATTO DI VINCENZONI AD OPERA DI VALERIO CAPRARA

Fra i tanti scritti occasionati dalla morte di Luciano Vincenzoni ve ne è stato uno particolarmente bello scritto da Valerio Caprara e pubblicato sul suo sito (www.valeriocaprara.com). Gli ho chiesto di riprodurlo nel Blog cosicché egli possa avere qualche nuovo lettore. Valerio è un vecchio amico, che ho conosciuto verso la fine degli anni settanta, quando era ancora nella parte iniziale della carriera universitaria e da non molto tempo, credo, era diventato critico cinematografico titolare del "Mattino". Nella stampa di un tempo avere una rubrica fissa sul quotidiano più importante della propria città significava molte cose: un rapporto intenso con la gente e una sorta di credito morale che si percepiva nettamente. Vorrei ricordare che una quarantina di anni fa la logica del tempo imponeva di recensire praticamente tutti i film che uscivano in prima visione in città, e di farlo immediatamente. Il pubblico se lo aspettava, e in certo senso lo esigeva. Erano giornali diversi, sotto molti profili ancora quasi ottocenteschi, ma che del XIX secolo conservavano una forte attrazione su un pubblico che, in ogni città, leggeva "quel" quotidiano, e in gran parte soltanto quello. Ne ricavava minute informazioni dando vita ad un rapporto di reciproca dimestichezza, ormai quasi completamente scomparso, di fronte alla clamorosa "aggressione" televisiva e, soprattutto, alla sostanziale scomparsa del pubblico giovanile. Si direbbe che, ormai, i quotidiani siano una realtà per vecchi, come il cinto erniario e i mali alla prostata: i giovani leggono i contributi in web e corrispondono fra di loro certamente non con il periodare, a volte ancora aulico, dei giornali ma con la fulminea stringatezza quasi telegrafica degli SMS.
Da quando l'ho conosciuto ad oggi Valerio è diventato un autorevole professore di storia del cinema alla Orientale di Napoli ed un altrettanto autorevole critico di livello nazionale (rimando al suo sito per l'elenco dei suoi libri, e, più generalmente, per il riassunto della sua carriera). In particolare egli ha accettato che io riproducessi il suo intervento (mi ha detto che ne era felice). Mi auguro che non sia l'unico suo rapporto con il Blog e vi lascio il piacere di leggerlo:



"La definizione più semplice e quindi più vera è storyteller, raccontatore di storie. Luciano Vincenzoni, nato a Treviso nel 1926 e scomparso ieri a Roma, passa alla storia del cinema italiano come uno dei più inesauribili, fantasiosi, trascinanti creatori di soggetti e sceneggiature “fatti apposta” per trasporsi in film-film, cioè quelli oggi purtroppo inimitabili che non hanno avuto bisogno di droghe intellettuali o mode culturali per incidersi nell’immaginario collettivo. Al di là della vita privata, anch’essa segnata da insolite vicende e spiriti anticonformisti, Vincenzoni ha non a caso fatto parte (con Age e Scarpelli, Flaiano, Maccari, Sonego, Zavattini e pochi altri) della pattuglia ad alto tasso di genialità e grinta che dalla deriva neorealistica di metà anni Cinquanta sino a fine secolo non ha mai smesso di fornire linfa vitale al fiuto dei produttori e al talento e/o mestiere dei registi e degli attori. Fatti, impatti, coincidenze, intrecci psicologici, sfilate di caratteri, la storia rivisitata o rovesciata come un guanto, il riso e il pianto mixati senza cautele, personaggi veri che sembrano inventati e viceversa: soprannominato in questo senso “il falso bugiardo”, insignito nella giungla hollywoodiana del titolo di “script doctor”, sincero sino all’autolesionismo nel bellissimo libro autobiografico “Pane e cinema”, andrebbe forse avvicinato a ciò che, in termini di capacità d’osservazione, intarsio psicologico e finto naturalismo destinato a trasformarsi in stile, simbolo e ossessione, è stata in campo letterario la scuola dei Flaubert e Maupassant.
Sessantacinque film e oltre: la quantità, nel suo caso, non va a scapito della qualità proprio perché l’approccio è rimasto limpido e risoluto come ai tempi dell’esordio con “Hanno rubato un tram” per la regia di Bonnard. Come background una vita assaporata senza filtri, anche come riscatto degli orrori della guerra e del caos del dopoguerra in cui tragedia e commedia hanno convissuto nel cuore e le viscere di un popolo. Amori, povertà, vizi, assalti a muso duro alla cittadella romanocentrica: arrivato da Treviso e incoraggiato dallo sceneggiatore Piero Tellini, il giovane dal cattivo carattere e i comportamenti strafottenti sfonda già nel ‘55 grazie al connubio con l’altro outsider Germi e al successo dello struggente “Il ferroviere”. Da allora non smette di scrivere sui tasti della sua Olivetti (non si arrenderà mai al pc) e osa addirittura forzare la mano del feticcio Dino De Laurentiis vendendogli sette sceneggiature in un sol colpo. Ne varrà la pena, però, perché la sua prorompente qualità di narratore nato, spesso corroborata dai vecchi e i nuovi complici come Amidei o Pirro, risalta in una serie di titoli da prima pagina: “La grande guerra”, “Il gobbo”, “Crimen”, “I due nemici”, “Sedotta e abbandonata”, “La vita agra” e quel “Signore & signori” che è uno dei capolavori della commedia all’italiana ancora cinica, anarchica e imparziale nel fustigare gli italiani senza accomodarsi sulla cattedra del politicamente corretto.
Chissà perché la critica snobba il suo eclettismo perché “di buon livello, ma privo di particolari ambizioni”, come se rientrassero in questa misera gabbia “La cuccagna” e “Roma bene”, “Un tranquillo posto di campagna” e “Torino nera”, “Libera, amore mio!” e “Gran Bollito”. Meno male, per noi spettatori, che a metà dei Sessanta avvenga l’incontro cruciale con Sergio Leone: mettendo un aggressivo taglio culturale –il suo romanzo di riferimento è e resterà il celiniano “Viaggio al termine della notte”- al servizio dell’istintiva e visionaria epica leoniana di “Qualche dollaro in più”, “Il buono, il brutto, il cattivo” e “Giù la testa”, l’asociale, irascibile e dissipatore Vincenzoni (tra l’altro donnaiolo incallito e schiavo della roulette) si dimostra, così, degno dell’amore/ammirazione dedicatigli in seguito dagli hollywoodiani e soprattutto dal maestro Billy Wilder. Fuggiasco a Hollywood per quindici anni e divenuto intimo anche di big come Matthau, Sinatra e Neil Simon, si sente estraneo all’andazzo di Cinecittà: “Non ero comunista e siccome mi piacevano il denaro, il lusso e la gente ricca mi hanno odiato e definito un servo degli americani”. In realtà basta scorrere l’elenco dei film a cui ha trasmesso un indiavolato vitalismo per capire come la sua forza sia stata quella d’imparare dai cento fiori della realtà, dalla violenza e dalla tenerezza, dai santi e dai furfanti, dalle famiglie e dai vagabondi. Nient’altro che un raccontatore di storie. "

3 commenti:

Rosellina Mariani ha detto...

Avevo letto sul suo sito l'articolo di Valerio Caprara ( che considero un carissimo amico anche se la nostra amicizia è più recente di quella che tu puoi vantare!) e mi era piaciuto molto: sono contenta di rileggerlo sul tuo blog.
Valerio , secondo me , ha la rara capacità di non essere mai banale e di saper cogliere l'essenza delle persone ( e dei film!). D'altronde se non fosse uomo di valore non sarebbe amico tuo! Grazie per aver pubblicato questo articolo

Unknown ha detto...

Molto bello.

http://www.casadelcinema.it/?event=omaggio-a-luciano-vincenzoni-proiezione-del-film-il-buono-il-brutto-e-il-cattivo-di-sergio-leone

Giorgio ha detto...

Bellissimo questo articolo di Caprara! Scrive in maniera eccezionale. Grazie di avercelo proposto anche qui nel blog.
Saluti