Blog - Crediti


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14 ottobre 2013

ANCORA UN RICORDO DI LIZZANI NELLE PAROLE DI VALERIO CAPRARA

Mi pare giusto riprodurre qui (con l'amichevole autorizzazione dell'autore) quel che Valerio Caprara ha scritto sul suo sito in occasione della morte di Carlo Lizzani. Come si vede Valerio ed io, che non avevamo certo legami di militanza comune con lo Scomparso, abbiamo ceduto entrambi al moto più grande che possa guidare parole e sentimenti di un essere umano. E cioè a quello del cuore (e del rimpianto).

articolo integrale su scomparsa di Lizzani

05 Ottobre 2013


“A V. C. questo vagabondaggio attraverso un secolo che ha lasciato aperte tante ferite e tante domande. Con affetto”. Questa dedica di Carlo Lizzani, datata 2007 e vergata sul frontespizio di uno dei più formidabili libri di cinema mai scritti in Italia, “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, apparterrebbe solo alla sfera privata se non fosse per le ragioni che, oltre a rendere doloroso il compito di tramandarne la memoria, possono contribuire a illuminare la statura dell’uomo prim’ancora della sua opera. E’ indubbio, infatti, che troncando tragicamente la propria lunga e intensa vita –si è suicidato gettandosi ieri dal balcone del proprio appartamento del quartiere Prati a Roma, ricalcando incredibilmente il gesto compiuto dall’amico e collega Mario Monicelli tre anni orsono- l’anziano regista, sceneggiatore e storico ha ritenuto chiusa per sempre l’opera maieutica compiuta nei confronti di due generazioni di critici e cinefili, quella dei nostri padri e la nostra. Senza rinnegare la propria formazione umana e artistica, forgiata negli anni della fronda universitaria al fascismo, della militanza nell’orbita del Pci romano e nell’attiva adesione alle istanze estetiche ed etiche del neorealismo, Lizzani ha, in effetti, praticato, perfezionato e anche modificato con rigore e pazienza per oltre un cinquantennio alcuni assiomi, forse più “rivoluzionari” di quelli legati alla lotta politica: la passione per il mestiere non può ispirarsi solo ad astratti canoni autoriali e non deve mai disprezzare la ricerca di un autentico rapporto con le platee; fare i film può corroborare la possibilità di saperli analizzare, storicizzare e persino valorizzare sulle ribalte festivaliere; girare il mondo intero per realizzare documentari vuole dire essere sempre pronti ad aprirsi a tutte le nuove “metriche” sperimentate dal medium (arcinemica tv compresa); l’impegno civile e culturale non deve essere sinonimo di fideistica fedeltà ai lasciti fallimentari delle utopie totalitarie del sunnominato secolo breve.
Sono tantissimi, in questo senso, i segnali che ci ha generosamente lasciato sul percorso di appassionati di cinema periodicamente esposti alle ubriacature ideologiche, agli assolutismi teorici, alle conventicole specialistiche, al ricatto del box-office e a quello del cineforum. Sia pure legato all’attività critica della rivista “Cinema”, crogiolo dei futuri leader neorealistici, comprende presto come la sceneggiatura costituisca un forte background per la successiva libertà creativa delle riprese, tanto è vero che la sua giovane mano si fa sentire nelle collaborazioni con Vergano, Lattuada, De Santis, Rossellini.
Esordisce dietro la macchina da presa con un trittico di documentari infiammati dal clima del dopoguerra, ma il primo film di fiction è “Achtung! Banditi!” del ’51, che già contiene il dna di tutta la sua poetica: una sceneggiatura, appunto, serrata e consequenziale, un po’ all’americana; la ricostruzione di un autentico episodio della Resistenza, ma nell’ottica di un’immediata epica popolare; un estremo verismo di ambientazione e dialoghi, ma con il forte richiamo costituito dal protagonismo di due divi dell’epoca come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. Il primo successo internazionale arriva tre anni più tardi, quando la giuria del “mondano” festival di Cannes decide di riservargli un premio speciale per “Cronache di poveri amanti”, robusto melò d’azione sull’opposizione fiorentina alla presa del potere fascista tratto dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini. Nella sua subito nutrita filmografia è evidente come l’interesse per la fase storica che lo ha fatto crescere, sia dal punto di vista intellettuale che da quello filmico, si confronta sempre più spesso e con esiti inevitabilmente alterni con il senso del ritmo, dell’avventura, dello scontro tra personaggi in cui il pathos privato può arrivare a surclassare quello sociale o di classe. Sono gli anni di “Il gobbo” (interpretato da Pasolini), “L’oro di Roma” “Il processo di Verona”, “La vita agra”, che ricevono, a causa della loro spigliatezza, accoglienze tiepide proprio da parte della stampa schierata a pregiudiziale tutela di un cinema antagonistico ai valori dominanti.
L’eclettismo del cineasta-gentiluomo, assiduo in ogni dibattito e in ogni polemica (anche perché nel frattempo ha pubblicato la prima “Storia del cinema italiano” dell’editoria nazionale esaustiva e circostanziata), ma sempre con un atteggiamento costruttivo, il tratto cortese e una lucidità non prona agli slogan abborracciati, lo conduce all’incontro con la commedia all’italiana. “La vita agra”, storia della dolorosa integrazione dell’anarchico Tognazzi nel confortevole tessuto del “miracolo economico” tratta dal romanzo di Bianciardi, non a caso è del ’64, ma Lizzani non si aggrega alla marcia trionfale dei Risi, Comencini e Monicelli e preferisce ritornare ai cortocircuiti con la cronaca (“Svegliati e uccidi”, “Banditi a Milano”, “Barbagia, la società del malessere”, “Roma bene”, “Storie di vita e malavita”, “San Babila ore venti”) che gli permettono di coniugare l’inchiesta con la spettacolarità. Che il cinema, inteso come arte di cuore e viscere, lo streghi da ogni punto di vista stanno a dimostrarlo tanti altri titoli, sparsi con allegra fluidità sino nei territori interdetti ai “colti” del suo livello: il western all’italiana (“Requiescant”), la storia (“Mussolini, ultimo atto”), il terrorismo mixato con l’erotismo (“Kleinhoff Hotel), il giallo (“La casa del tappeto giallo”). Non si creda che Lizzani, infine passato al piccolo schermo con una serie, anche questa, debordante di docu-dramma (da “La donna del treno” del ’98 a “Le cinque giornate di Milano” del 2004 e fino a “Hotel Meina” del 2007), abbia accettato passivamente di essere collocato in serie B dalla Nuova Onda iper-cinefila. Non solo, infatti, ha rilanciato, dirigendola dal ’79 all’82, l’agonizzante Mostra di Venezia, ma ha continuato instancabilmente ad alternare gli interventi, le discussioni, le rievocazioni e gli scritti con film non più incisivi eppure mai banali, mai raccomandati alla benevolenza dei critici (“Caro Gorbaciov”, “Cattiva”, “Celluloide”). E’ indifferente, a conti fatti, chiamarlo o meno maestro. Come ha sempre desiderato, ha di sicuro “lasciato tracce”: le uniche, peraltro, in grado di sfidare la sparizione, destino comune di ogni essere umano. 

6 commenti:

Giorgio ha detto...

Altro bellissimo articolo di Caprara.
Grazie Claudio per avercelo proposto nel blog.
Saluti

Rosellina Mariani ha detto...

Grazie a Valerio Caprara per questo straordinario articolo che rende ancora più indelebile il ricordo di Carlo Lizzani.
Grazie a te per averlo pubblicatop sul Blog

Enrico ha detto...

Ho letto oggi su Film TV che nella splendida sequenza del ballo di "Riso Amaro" fu Carlo Lizzani,provetto ballerino di boogie woogie e twist,a far da controfigura a Gassman.

Rosellina Mariani ha detto...

Caro Claudio, auguri tanti per il tuo compleanno ! Grazie per tutto quello che ci dai con la tua acuta intelligenza e sapiente ironia!

Giorgio ha detto...

Mi associo anch'io agli auguri di buon compleanno!
Grazie per tutto quello che scrive.

Rita M. ha detto...

Le porgo anch'io i miei migliori auguri, per quanto con un giorno di ritardo, ma ieri non ho potuto proprio!Grazie sempre per la Sua preziosa testimonianza sul mondo del Cinema (con la C maiuscola).