LE PRIME DELLO SCHERMO
OLIMPIA
IL PROFETA - Italia – Technicolor
- Anno: 1968
Regia: Dino Risi -
Sogg: D. Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari
Scenegg.: E. Scola, R. Maccari -
Foto: Sandro D’Eva – Mus.: Armando Trovajoli –
Scenogr. e Ambiente: Piero Paletto -
Mont.: Marcello Malvestiti - Interpreti: Vittorio Gassman, Ann-Margret, Oreste Lionello, Liana Orfei, Fiorenzo Fiorentini, Yvonne Sanson, Enzo Robutti, ecc. –
Produzione: Mario Cecchi Gori per Fair Film -
Distribuzione:Titanus –
Regia: 5 – Scenario: 5 – Foto: 7 – Attori: 7 – Media voto: 6.
La saga fra il bonario e l’irridente del personaggio-Gassman viene ormai stancamente sospinta avanti dagli addetti ai lavori (i Risi, gli Scola, i Maccari, gli Indovina, eccetera), con una rassegnazione che non riescono più, di film in film, a nascondere. Dai tempi de “Il sorpasso” ad oggi (ma allora a spremere sceneggiature ben tagliate e frizzanti c’erano volponi più agguerriti come Age e Scarpelli) il brio aggressivo, fra il volgare e il genialoide s’è via via adagiato in una allegrezza di maniera, in una prevista antologia di smorfie e ammiccamenti, che lo stesso attore sfodera con minor convinzione (sono già nonno, pare che dica nella pause, e coltivo pur sempre il teatro importante: mi fanno fare lo stracciarolo, l’amico degli animali, il profeta barbuto. In fondo, potrei essere commendatore). Profeta e barbuto, appunto, come è qui. O, più esattamente, misantropo protestatorio ma tranquillo, mutatosi da impiegato totalmente alienato e condizionato (l’ufficio, la macchina, la moglie insipida, il televisore serale) in un eremita irsuto e soddisfatto. Di colpo abbandona la moglie in macchina in un ingorgo e fugge. Poi, per cinque anni, la vita solitaria all’aria aperta e in grotta, cibo vegetariano, per tutta compagnia una capra. Un giorno la televisione lo scopre, e, dal canto suo, l’eremita è costretto a scendere a Roma per regolare le infinite pendenze con la giustizia, che il suo taglio netto con il consorzio civile ha fatto accumulare a suo carico. In città si installa in una sorta di pittoresco bidonville di barboni e non tarda a diventare un personaggio popolare: un piccolo maneggione si muta in suo impresario, lo “piazza” vantaggiosamente, davanti al profeta si aprono i salotti e i “caroselli”, perde la sua continenza serafica, immola la sua dieta vegetariana di fronte ai crostini, nei ricevimenti, e la calma dei sensi di fronte a Maggie (Ann-Margret, che già fu al fianco di Gassman ne “Il tigre”, sempre vitalissima e agitata ma gracile attrice), una “hippie” dalle idee abbastanza lucide in fatto di denaro. Alla fine, il profeta si avverte ingabbiato e integrato di nuovo, ha uno scatto d’ira ma non tarda a spegnerlo fra le braccia della sorella (Liana Orfei) del suo “manager” e soprattutto di fronte alle mille trovate di quest’ultimo: le ultime inquadrature ce lo mostrano alla testa del suo ristorante alla moda (appunto: “Dal profeta”) intento ad amministrare cibi alla moda, vestito di una lussuosa parodia da lavoro del saio rozzo, saio di un tempo.
Se si vuole come misura e struttura di un apologo, il film è un po’ “Il marziano a Roma” di Flaiano in chiave di coda alla vaccinara e di discussioni domenicali tra tifosi della Roma e della Lazio. Un discorso beffardo sulle mille occasioni di integrazione e di corrompimento della società in cui viviamo, condotto con lo spirito di facile e stenta beffa che proprio quella società coltiva sistematicamente e, in realtà, come calcolata forma di innocua evasione. Strutturalmente, il film ha un avvio abbastanza baldanzoso e, pur nei limiti risaputi nella “maniera” sopra ricordata, non privo di una certa patina di aggressiva e sguaiata allegrezza.
Poi, proprio per difetto di sceneggiatura, si adagia nel previsto e nel prevedibile, quasi che i primi a non crederci fino in fondo siano proprio gli attori, per non dir dell’interprete.
1 commento:
Gentile G. Fava, dopo aver letto tutti i pezzi commento, solo per comodità, sull'ultimo di essi in ordine di tempo.
Dino Risi è spesso chiamato in causa quando si argomenta della strepitosa capacità della commedia all'italiana (di quella commedia, di quei decenni) di fotografare la nostra società.
Ben più adeguatamente del "romanzo familiare", ben più "commestibilmente" della letteratura o di una certa canzone d'autore dell'epoca, il cinema (la commedia, e Risi uno dei suoi maestri)lo hanno fatto.
Ciò che sgomenta, a mio avviso, alla luce dei suoi spunti e rilievi, è l'assoluta immobilità della società italiana e della sua grammatica del ridere (spesso di altri, mai di se stessi) e quindi di pensare.
Un grammatica che, allora come esattamente oggi, ha come declinazioni una certa volgarità (purchè spicciola e immediata) l'immancabile velina (allora però almeno non tentavano la strada politica e non erano afflitte da inquietanti smanie teatrali) e i soliti tragici (quanto rassicuranti)ingredienti nazionalpopolari.
L'acceleratore pigiato su un certo becerume compiaciuto, la facilità (quando non banalità) delle battute, la tendenza a tramutare tutto in gag (senza il rispetto che l'avanspettacolo aveva per tale espressione) e il pressapochismo di certe sceneggiature mi paiono costanti riscontrabili anche oggi.
Ovviamente tutto in peggio, infatti quel senso di "peccato" di occasione non del tutto colta o compiuta che esce dalle sue recensioni, oggi verrebbe dalla critica "endoscopicamente" ottimista ribaltata in una sorta di bicchiere mezzo pieno, traendo fiducia dai risultati insperati raggiunti da attori che fanno cinema per solo fatto che il cinema, tranne poche sparute occasioni (sorrentino, olmi, garrone, avati e pochi altri) non esiste più.
C'è solo la tv, la brutta tv, che è sbarcata anche sul grande schermo.
E non solo lì.
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