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12 luglio 2010

VITTORIO EMANUELE III, LE LEGGI RAZZIALI E GALEAZZO CIANO


Nella sua posta sul Corriere della Sera di martedì 6 luglio “Lettere al Corriere”, Sergio Romano ha pubblicato al posto d’onore la breve missiva di un certo Leo Proietti ( Leo.Proietti@tiscali.it ) il quale si chiede perché Vittorio Emanuele III non si sia mai opposto alla “sciagurata aberrazione storica” delle leggi razziali. In televisione, dice l’autore della missiva, i conduttori non rispondono mai a questo interrogativo.
Per una strana combinazione da tempo sto leggendo e rileggendo il famoso “Diario 1939-43” di Galeazzo Ciano. E’, come tutti sanno, un’opera fondamentale per capire gli ultimi anni del fascismo, e, ancor più, la bizzarra e rovinosa psicologia dell’ultimo Mussolini. Dalle annotazioni di Ciano, inizialmente animate da una devozione totale al suocero e poi, via via, aperte ai dubbi (man mano che andava concretandosi la sua totale opposizione alla guerra, purtroppo non resa esplicita da dichiarazioni pubbliche), vien fuori un ritratto terrorizzante ma sufficiente a far nascere molti dubbi in chi (in altri tempi! Come ad esempio Gianfranco Fini) considerava il figlio del fabbro di Predappio un grande uomo di stato. In particolare nel diario di Ciano, devotissimo alla memoria del padre - ammiraglio, che venne fatto appunto Conte di Cortellazzo in seguito ad una azione di Mas durante la Prima Guerra Mondiale – vi sono molti riferimenti a Vittorio Emanuele. A cui, come ministro, egli doveva periodicamente far firmare le leggi di sua competenza come Ministro degli Esteri. Il ritratto che emerge dal diario di Galeazzo rivela in effetti delle connotazioni quasi paterne. Il re è sempre descritto come un vecchietto bizzoso ma al tempo stesso informatissimo. Segue minutamente il decorso della legislazione, è assolutamente scettico sulle possibilità delle nostre forze armate di partecipare decorosamente ad un conflitto mondiale, è profondamente anti-tedesco (chiama gli alleati “quei brutti tedeschi”), non gli sfugge nulla dei piccoli e grandi meccanismi del governare, sul quale la sua competenza era amplissima. Non dimentichiamo che dalla morte di Umberto I (29 luglio 1900) sino alla marcia su Roma (28 ottobre 1922) trascorsero più di due decenni in cui il sovrano fu un re forse retrivo ma democraticamente impeccabile (i suoi rapporti con il parlamento, i ministri e la classe politica risultarono ispirati ad un cauto senso del dovere che cercava di evitare la retorica e che gli ispirò il rifiuto di concedersi a rappresaglie dopo l’assassinio del padre). Nella sua risposta a Proietti, Romano ricorda come Vittorio Emanuele III avesse intuito che Mussolini voleva risolvere “una volta per tutte il problema della monarchia” e vide nella istituzione del grado di Maresciallo dell’Impero (la doppia greca), attribuito in modo paritario al re e al Duce, “l’avvento di una diarchia e l’inizio di un processo che si sarebbe concluso con l’uscita dei Savoia dalla storia nazionale”. Perciò egli firmò le leggi razziali “perché un rifiuto avrebbe umiliato Mussolini, messo in discussione l’autorità del capo del governo e offerto al fascismo radicale l’occasione per chiedere al Duce una nuova e decisiva prova di forza”. E qui Romano conclude che il re era troppo cinico per ricordare che era stato proprio Carlo Alberto, suo bisnonno, ad aver dato piena e libera cittadinanza agli ebrei del Regno di Sardegna (e quindi, poi, del Regno d’Italia). Va detto che le comunità ebraiche italiane erano assolutamente integrate nel tessuto della società e l’antisemitismo dichiarato si limitava ad esigui frammenti del mondo cattolico. Gli ebrei in Italia non sono mai stati numerosissimi ma va detto che già nel 1902 i senatori del Regno d’Italia di religione ebraica erano sei. Ma che nel 1922, all’epoca della marcia su Roma, erano saliti a diciannove. Un protestante di padre ebreo era divenuto Presidente del Consiglio nel 1906 e nel 1910 un altro ebreo. Luigi Luzzatti, era diventato Presidente del Consiglio a testimonianza della integrazione di quella che era una piccola minoranza religiosa. Durante la Prima Guerra Mondiale i generali ebrei furono non meno di una cinquantina e d uno di essi, Emanuele Pugliese, che comandava le truppe a Roma al momento della Marcia fascista, sembra che fosse addirittura fra i suoi parigrado il più decorato dell’esercito italiano.
Non c’è dubbio che il cinismo, una sorta di logorio del potere, ispirò molte decisioni del re. Tuttavia per restituirne la dimensione umana e mentale, e per togliergli di dosso quel disegno da barzelletta con cui di solito è evocato da noi a causa della sua bassa statura, è indispensabile far cenno della sua preparazione culturale. Notoriamente arido e scettico (quando doveva inaugurare la Biennale di Venezia una volta si mise in luce davanti a un quadro a carattere equestre, dicendo :”Quei cavalli sono malati, lo vedo dalle unghie”) aveva un’ampia cultura “nozionistica”, come si dice adesso, rinfocolata da un sistema severissimo di “allevamento” con cui era stato addestrato sin dall’infanzia. Contrariamente a suo padre, che credo conoscesse soprattutto il torinese, Vittorio Emanuele III parlava correntemente inglese, francese e tedesco e le nozioni storiche di cui era in possesso superavano di gran lunga le conoscenze di un professionista medio. Basti ricordare che, grande appassionato di numismatica (la sua collezione, Corpus Nummorum Italicorum, che sembra sia una delle migliori al mondo, la lasciò in eredità allo stato italiano, che non che cosa ne abbia fatto), scrisse per ognuna delle sue monete la storia singola e globale. Cioè ritrasse la situazione storica e politica del momento in cui la moneta era stata coniata. Dando prova di una erudizione minuta ma omnicomprensiva. Si vede da qui lo sguardo informatissimo che dava alle cose del mondo, ed in particolare a quelle politiche. Sicché, di fronte alle notazioni di Ciano (che era da lui trattato con particolare benevolenza) le sue reazioni erano giusto quelle che ci si poteva aspettare da un omino d’età che conosceva profondamente il mondo e non lo amava. D’altra parte uno stupore profondo si prova quando si vede il re occuparsi di quel che faceva il Duce. Che Ciano per qualche anno circonda di una reverenza affettuosa e quasi servile, mentre poi col passare degli anni, si accorge di alcuni difetti fondamentali dell’uomo. In realtà dal Diario nel suo complesso vien fuori il ritratto di un pessimo uomo di stato, che si lascia trascinare dagli impulsi del momento, in particolare nei confronti dei tedeschi: da un lato è persuaso che essi abbiano vinto e che perciò bisogna accontentarli in tutto quello che chiedono, dall’altro si lascia sfuggire momentanei ma decisivi risvolti di odio. Tutte le considerazioni che fa il re sulla politica nazionale e internazionale sono in genere sensate e nascono da riflessioni di prima mano. Sicché si rimane stupiti a vedere quest’uomo, complicatissimo e raggrinzito su se stesso, lasciarsi andare, nei confronti di Mussolini, ad un atteggiamento sostanzialmente servile e arreso. Come se, prima della Marcia su Roma, non avesse governato per ventidue anni una classe politica democratica con tutti i problemi tecnici e morali che questo implica .
Che cosa colse il re durante il ventennio fascista, in cui egli accettò supinamente di intaccare i lati positivi dello Statuto fino a distruggerlo, non è dato di capire. Tuttavia resta in questa figura ormai confinata nelle barzellette (si ricorderà che il Duca Amedeo d’Aosta, poi morto in Africa, venne bandito da corte per un anno per aver detto, mentre il re e la moglie Elena entravano in un salone, “ecco Curtatone e Montanara”). Ma ingiustamente perché in questo modo si rischia di non cogliere il lato paradossale e tragico della sua figura. Anche Galeazzo Ciano, con tutti gli snobismi aristocratici che imparò assai presto a sfoggiare al Circolo del Golf, fu oggetto di battute taglienti. Quando morì suo padre Costanzo l’ammiraglio, che aveva costruito le fortune politiche e finanziarie della famiglia, nella sua città natale Livorno gli venne intitolata una strada, chiamata ovviamente Via Costanzo Ciano. Pochi giorni dopo una mano maligna scrisse sotto il nome la frase “via anche il figlio!”. Del resto sul povero Galeazzo si addensarono altre malignità d’epoca. La più caratteristica riguardava lui, ma volendo anche suo padre, e diceva letteralmente “Galeazzo (oppure Costanzo) Ciano Conte di Cortellazzo / bene la rima in ano, / meglio la rima in azzo”.
La freddezza e lo scetticismo, salvo per ciò che riguarda l’amore verso la moglie Elena, regolavano il suo modo di pensare nei confronti di tutti. Compresi i membri della famiglia: quando il Duca di Spoleto (alla morte del fratello in Africa divenne a sua volta Duca d’Aosta, padre del Duca d’Aosta attuale) fu nominato re di Croazia con il nome di Tomislao II, il re ebbe qualche momento di perplessità ma concluse poi che in famiglia era l’unica soluzione possibile. Una certa distanza da tutti gli altri Savoia era in lui connaturale. Nei confronti del figlio Umberto, cui dovette lasciare la corona nel maggio del 1946, aveva dei risvolti d’affetto ma anche le stesse riserve che formulava verso tutti. Quando il giovane principe aveva poco più di vent’anni era considerato molto bello ed era desiderato (erroneamente) da tutte le sartine d’Italia. Una volta il re ad un cortigiano che esaltava il successo pubblico di Umberto, rispose seccamente: “si fa presto ad essere popolari quando si è giovani e belli!”.
Anche questa è una chiave per penetrare nel suo cervello complesso e nel suo cuore a più strati.


(battute 9.582)


Claudio G. FAVA
Blog: http://clandestinoingalleria.blogspot.com

Genova, 12.07.2010

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