Da diverso tempo, per ragioni di salute, non riesco ad occuparmi del blog. Adesso, facendo le corna, provo di nuovo a metterci le mani. Prometto che cercherò di tener fede ai miei impegni, comprese le telefonate nuove da fare (un bis di Vincenzoni, una nuova telefonata con Carla Signoris, un’altra nuova con Giovanni Minoli, eccetera). Trascrivo qui un pezzettino che ho scritto ispirato da due articoli di Aldo Grasso sulla RAI pubblicati dal Corriere della Sera. Incongruamente l’ho spedito sia a Sergio Romano che a Severgnini, per le due rubriche di cui sono titolari appunto sul Corriere (non so quale voglia mi abbia punto visto che col secondo non ho rapporti e col primo mi limitai una volta ad inviargli, se ricordo bene, un ritratto di Giovanni Ansaldo visto come Zelig, per cui Romano chiese informazioni su di me a Piero Ottone, pensando che fra genovesi dovevamo conoscerci ( ma in realtà non personalmente). Comunque sia ho inviato questo pezzo sulla RAI a entrambi, e se mi venisse formulata una domanda stringente risponderei che “non so perché”.
Ecco dunque il brano:
Ecco dunque il brano:
In questi ultimi tempi Aldo Grasso ha scritto sul Corriere della Sera due articoli con una motivazione affine. E cioè la deprecazione dell’attuale modo di comunicare della RAI e la nostalgia per la RAI di una volta. Di cui io, dal 1970 al 1994 ho fatto parte con un minimo di clamore. Contemporaneamente ho pubblicato presso la casa editrice “Le Mani” un libro sul cinema di guerra, intitolato appunto “Guerra in cento film” e inserito in una collana specializzata a riassumere un genere appunto attraverso l’esemplificazione di 100 titoli. Ho ricevuto un numero abbastanza lusinghiero di recensioni. Fra cui un’ampia intervista in Tutto Libri, una nota favorevole nel supplemento domenicale del Sole 24 Ore, un’amichevole e affettuosa tirata di orecchie di Irene Bignardi nel Venerdì di Repubblica e nella stessa testata una piccola ma lusinghiera citazione di Corrado Augias, senza citare “Billy” del TG1 e perfino Striscia la Notizia, grazie alla stima albenganese di Antonio Ricci. Rischiavo di dimenticare "Hollywood Party", dovuta alla cortesia dell'amico Steve Dellacasa e il recentissimo e caloroso brano di Paolo Meneghetti sul Corriere della Sera del 4 luglio. In quasi tutti questi casi, più o meno esplicitamente, i riferimenti al sottoscritto erano motivati con la ampiezza e la vastità delle presentazioni televisive di film da me effettuate durante la lunga vita aziendale. A quanto sembra c’è tutta una generazione, fra i 40 e i 60 anni, che se le ricorda con simpatia e che le associa automaticamente al mio nome. Senza rendersi conto in realtà che erano la ciliegina sulla torta di un duro e continuo lavoro costituito in gran parte dall’ampia e minuta dedizione quotidiana all’articolato lavoro del “mettere in onda” i programmi. Seguendo acquisti, doppiaggi, recuperi e collocazioni, ovvero l’opera complessa, che spesso sfugge alla maggioranza, costituita dal frammentato impegno televisivo.
Riflettendo su questo e sugli articoli di Aldo Grasso, sono stato punto da una retrospettiva e maligna curiosità professionale. E cioè dal desiderio di sapere se quelli della mia generazione (io sono andato in pensione nel 1994) erano effettivamente più bravi dei colleghi di adesso. La nostalgia dei cicli di film – fra gli “interni” ci furono anche Vieri Razzini e Giuseppe Cereda, fra gli “esterni” ricordiamo almeno Gianluigi Rondi, Fernaldo Di Giammatteo, Francesco Savio Pavolini - rimane in molti degli spettatori d’epoca per cui la RAI divenne una sorta di immenso e tollerante Cineforum. Parlo di quella gente che ormai ha una certa età e che rappresenta nei giornali e nelle riviste i redattori meno giovani e che quindi esercita, come tutti, nel lavoro di ogni giorno l’organica mescolanza dei propri ricordi e dei propri desideri. Questi stimoli diversi mi hanno portato a chiedermi se veramente noi non eravamo migliori? La nostra televisione, per quanto inamidata nelle convenzioni dell’epoca, era veramente meno sbrindellata, sciatta e urlante di quella di oggi? Dopo anni di assoluto e libero dominio mi ritrovai, negli ultimi mesi di vita aziendale, alle prese con una nuova e sospettosa dirigenza che come unico obbiettivo aveva quello di far fuori tutte le persone di una certa età e tutti gli esponenti del passato, considerati vecchi in un modo abominevole. In base al contratto giornalistico avrei dovuto andare in pensione nell’ottobre del 1994, al compimento dei 65 anni di età. Finii con l’andarci due o tre mesi prima, ossessionato dalla presenza nelle vesti di nuovo Direttore del Personale (anzi, adesso si dice, con un’espressione para nazista, Direttore delle Risorse Umane) di un certo professor Celli. Che mi ricevette una volta sola e che evidentemente mi aveva già cancellato dalla sua mente (anni dopo, ne ho la documentazione sonora, dichiarò: “abbiamo rimesso a posto i conti e abbiamo distrutto l’azienda”, tardivo riconoscimento di colpevolezza). Tutti noi vecchi che avevamo contribuito in modo decisivo a tenere in piedi l’azienda, salvo quelli protetti politicamente, fummo allontanati con orrore. Il ché, dopo tanti anni, continua ad amareggiare i miei ricordi di lavoro.
Forse si tratta di goffi ritorni della memoria e degli affetti. Ma forse quello che provo è non solo un sentimento sincero ma anche la dimostrazione della reale ritorsione di un’assurda realtà italica. Vale a dire di un’applicazione insensata di una sorta di “spoil system” nostrano, non codificato da nessuna norma ma fortemente presente nella realtà servile del parastato italiano. Ed è forse per questo che non riesco più a prendere sul serio le continue polemiche che i politici accendono di continuo sulla televisione in genere e sulla RAI in particolare.
Si divertano altri, io non gioco più.
Claudio G. Fava(Blog: http://clandestinoingalleria.blogspot.com)
Riflettendo su questo e sugli articoli di Aldo Grasso, sono stato punto da una retrospettiva e maligna curiosità professionale. E cioè dal desiderio di sapere se quelli della mia generazione (io sono andato in pensione nel 1994) erano effettivamente più bravi dei colleghi di adesso. La nostalgia dei cicli di film – fra gli “interni” ci furono anche Vieri Razzini e Giuseppe Cereda, fra gli “esterni” ricordiamo almeno Gianluigi Rondi, Fernaldo Di Giammatteo, Francesco Savio Pavolini - rimane in molti degli spettatori d’epoca per cui la RAI divenne una sorta di immenso e tollerante Cineforum. Parlo di quella gente che ormai ha una certa età e che rappresenta nei giornali e nelle riviste i redattori meno giovani e che quindi esercita, come tutti, nel lavoro di ogni giorno l’organica mescolanza dei propri ricordi e dei propri desideri. Questi stimoli diversi mi hanno portato a chiedermi se veramente noi non eravamo migliori? La nostra televisione, per quanto inamidata nelle convenzioni dell’epoca, era veramente meno sbrindellata, sciatta e urlante di quella di oggi? Dopo anni di assoluto e libero dominio mi ritrovai, negli ultimi mesi di vita aziendale, alle prese con una nuova e sospettosa dirigenza che come unico obbiettivo aveva quello di far fuori tutte le persone di una certa età e tutti gli esponenti del passato, considerati vecchi in un modo abominevole. In base al contratto giornalistico avrei dovuto andare in pensione nell’ottobre del 1994, al compimento dei 65 anni di età. Finii con l’andarci due o tre mesi prima, ossessionato dalla presenza nelle vesti di nuovo Direttore del Personale (anzi, adesso si dice, con un’espressione para nazista, Direttore delle Risorse Umane) di un certo professor Celli. Che mi ricevette una volta sola e che evidentemente mi aveva già cancellato dalla sua mente (anni dopo, ne ho la documentazione sonora, dichiarò: “abbiamo rimesso a posto i conti e abbiamo distrutto l’azienda”, tardivo riconoscimento di colpevolezza). Tutti noi vecchi che avevamo contribuito in modo decisivo a tenere in piedi l’azienda, salvo quelli protetti politicamente, fummo allontanati con orrore. Il ché, dopo tanti anni, continua ad amareggiare i miei ricordi di lavoro.
Forse si tratta di goffi ritorni della memoria e degli affetti. Ma forse quello che provo è non solo un sentimento sincero ma anche la dimostrazione della reale ritorsione di un’assurda realtà italica. Vale a dire di un’applicazione insensata di una sorta di “spoil system” nostrano, non codificato da nessuna norma ma fortemente presente nella realtà servile del parastato italiano. Ed è forse per questo che non riesco più a prendere sul serio le continue polemiche che i politici accendono di continuo sulla televisione in genere e sulla RAI in particolare.
Si divertano altri, io non gioco più.
Claudio G. Fava(Blog: http://clandestinoingalleria.blogspot.com)
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