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18 agosto 2010

CAVOUR ERA ITALIANO ?


Il 10 agosto Ernesto Galli della Loggia pubblicava un fondo nel “Corriere della Sera” intitolato “Nostalgia di Cavour”, in cui lo storico, proprio nella ricorrenza del duecentesimo anniversario della nascita del Conte, deprecava la scarsa popolarità di quegli che egli chiama “il gran Conte” in una Italia che sembra non volerlo ricordare. Galli della Loggia fa rilevare che, “fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare”. E ricordava nel suo pezzo la sostanziale impopolarità di Cavour e, più largamente, l’impopolarità della politica in cui gioca il “peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola”. Ma anche il “pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, l’anitpiemontesismo per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte, percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale: il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico, (…) tratti della mentalità subalpina (che) finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande Primo Ministro (…) ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale”.
Ho cercato qui di riassumere, forse inabilmente, il pensiero dell’autore (se non sbaglio discende egli stesso da una famiglia della nobiltà piemontese: un suo antenato, morto nel 1858, fu colonnello e senatore del Regno). Quel che si deve notare nel suo brano è che egli, in qualche modo, si spinge a sfiorare la verità. E cioè che Cavour di fatto non era veramente italiano, pur essendo il massimo responsabile dell’unità d’Italia. Non lo era come non lo erano nel fondo (compreso l’italianissimo e quasi romanizzato Massimo d’Azeglio) tanti componenti della nobiltà piemontese dell’epoca, con un fenomeno di “traslazione dei sentimenti”, affine ma diversa da quella che animava la nobiltà prussiana e russa: i componenti di queste ultime erano infatti giunti al punto di vivere all’interno del proprio paese, fondamentalmente distaccandosene in una delle manifestazioni più forti dell’adesione ad una realtà nazionale. Vale a dire la lingua. Avevano compattamente adottato il francese come idioma di casta (Tolstoj cita il caso di una nobildonna che, al momento dell’invasione operata da Napoleone, aveva convocato un precettore russo per riuscire ad abolire almeno parzialmente l’uso della lingua che era anche quella dell’orribile Corso). Anche con caratteristiche diverse – la lingua abitualmente parlata era il vernacolo piemontese - la stessa identificazione con il francese ebbe luogo, ma senza nessun senso di colpa, in Cavour e negli altri membri della società che egli frequentava. Egli, mentre nella lingua di tutti i giorni usava prevalentemente il torinese, non pensava di scrivere in un’altra lingua che non fosse il francese, l’unica che conoscesse veramente bene (come è noto il suo amico, il barone Severino Cassio, gli rimproverò spesso di battersi tenacemente per la remota unità d’Italia, ma di continuare ad ignorarne la lingua, che pure aveva dovuto obbligatoriamente usare come allievo della Regia Accademia Militare di Torino). Non so in quale idioma si rivolgesse alla marchesa Nina Giustiniani, che era poliglotta ma che scriveva anch’essa abitualmente in francese. Anche se va detto che l’ultima lettera diretta da lei a Cavour prima del suicidio fu addirittura in genovese. Io ne ho trovato nel preziosissimo Google una versione in dialetto che mi pare discutibile nella sua traslitterazione, ma che comunque per un genovese produce un effetto indubbiamente commovente (“… beseugna che m’adatte ae triste circostanze ne’ quali me treuvo, e che seggie ben contenta che ti te ricordi de mi. Te daggo tanti baxi …”).
In sostanza Galli della Loggia – assolutamente condividibili sono le sue osservazioni sul carattere prevalente del Piemonte d’epoca – arriva a sfiorare il tema centrale della vita di Cavour senza giungere alla logica conclusione. In effetti il conte “non” era italiano, anche se, in tutta innocenza, si sforzava di sembrarlo. La sua estraneità patrizia alla corrente definizione di quella che avrebbe dovuto essere la sua vera nazionalità era ulteriormente complicata dalla presenza determinante della parte svizzera della sua famiglia, che gli veniva dalla madre Adele di Sellon, ginevrina. Per brevità rimando a quel che ha scritto Sergio Romano ne “Il castello di Santena”, a proposito dello stato senza confini di cui – come dice Romano - portava l’eredità nel sangue: “una sorta di enclave a cavallo tra la Svizzera, la Francia e il Regno di Sardegna, (…) una provincia europea (…) assai più vicina a Parigi, Londra e Milano che non a Firenze, Roma, Napoli”. Non c’è dubbio che, in larga misura, la dimestichezza con lo zio Jean-Jacques e con il castello di Allaman, con la casa di La Perrière, le villeggiature dei lontani cugini di Cavour, i de la Rive, a Pressinge, o degli altri cugini, i Clermont-Tonnerre, a Le Bocage, influiscano in modo determinante sulla “francesità” del conte e la sua sostanziale lontananza da una nazione, ancora inesistente dal punto di vista formale e sostanzialmente estranea sotto il profilo geografico.
Italiano volenteroso ma complessivamente inattendibile, fu poi, come abbiamo detto e forse al di là dei suoi stessi desideri, l’artefice dell’unità d’Italia. Non è escluso che proprio l’ambigua eredità cavouriana abbia finito con l’influire negativamente su tutta la nostra struttura nazionale e statuale. A questo riguardo è interessante rilevare che proprio l’articolo di Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” abbia provocato la stizzita, ma non totalmente infondata, risposta di un certo Stanislao Napolano nel sito “Comitati delle Due Sicilie”, uno dei tanti blog neo-borbonici che fioriscono nel mondo complesso dei blog nostrani. Ho trovato materiale sui Comitati delle Due Sicilie che, come scrive Gabriele Falco, “rappresentano l’uscita del Popolo meridionale dallo stato di minorità che esso deve imputare per prima cosa a 147 anni di scellerato colonialismo e in secondo luogo anche a se stesso”. Nel logo della pubblicazione figurano doverosamente tre gigli borbonici…
E’ un tema, questo della tardiva ma furibonda “opposizione” meridionale all’unità d’Italia, che vorrei riprendere in un prossimo intervento.


Claudio G. Fava
mercoledì 18 agosto 2010

Battute: 6.377

1 commento:

Anonimo ha detto...

Thanks :)
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